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Vero leader o cocente delusione?
A un anno dalle prossime elezioni, una disincantata disamina dell'operato del presidente più visionario della storia
La Bbc pubblica un editoriale di Mark Mardell su Barack Obama dal titolo: Obama è un buon leader? Ecco la traduzione.
Quando il presidente Obama venne eletto sembrava un leader diverso dagli altri. Non solo il primo nero alla Casa Bianca, ma un nuovo tipo di presidente americano: intelligente, riflessivo e deciso a rappresentare tutto il suo paese.
Ora, a un anno di distanza dalle elezioni presidenziali, molte persone si chiedono che tipo di leader si è rivelato essere. Un critico impietoso ha detto che sembra un cinquantenne che ha appena trovato il suo primo vero lavoro, uno che non ha nessuna esperienza di leadership di qualsivoglia organizzazione, e lo ha dimostrato nella gestione della Casa Bianca.
I repubblicani sono naturalmente i critici più severi. Ed Rogers, un ex funzionario della Casa Bianca sotto la presidenza di Bush e Reagan mi ha confidato: «Credo che Obama non sia un leader efficace. Pensa troppo, tentenna troppo. Non ha la leadership adatta a prendere decisioni rapide. La mia impressione è che soffra prima di decidere e – quel che è peggio per un presidente – soffra dopo aver deciso. Non trasmette certezze alla sua squadra. I suoi collaboratori non sanno mai se l’altra parte di lui si pente di quello che ha fatto da presidente, non sanno mai se quello che ha deciso è certo o no. Però alla fin fine essere presidente vuol dire prendere decisioni e mantenerle».
Ovviamente all’inizio del cammino poitico di Obama questa era la sua forza: lui esaminava i fatti attentamente e in modo imparziale. Per questo è stato visto come diametralmente opposto all’ex presidente Bush, che nell’immaginario popolare era un presidente cow-boy che decideva di pancia, confidando in una sorta di istinto primordiale. Obama, invece, ama i dettagli.
In qualità di consigliere economico del vicepresidente, Jared Bernstein ha sempre partecipato al briefing quotidiano sui temi economici con il presidente Obama nella fase peggiore della crisi economica. E ancora si meraviglia di quanto il presidente fosse traballante. «Ricordo che un giorno io e Paul Volker, ex presidente della Federal Reserve, stavamo illustrando minuziosamente al presidente le differenze dei tassi di interesse tra i vari titoli di credito, e Volker uscendo dalla riunione mi disse: “Ehi, non ci posso credere: il presidente era veramente interessato”». Per Bernstein un atteggiamento del genere era apprezzabile, nel bel mezzo di una crisi dei mercati in cui anche i decimali possono fare la differenza da un giorno all’altro; sottolinea anche come Obama abbia dovuto affrontare una sfida enorme, riuscendo a impedire il completo tracollo dell’economia. Ma ammette anche che abbia potuto dare l’impressione di tentennare. «Quell’uomo ha la straordinaria capacità di assimilare moltissime informazioni. Gli piace risolvere i problemi pragmaticamente, ma solo dopo essersi informato il più possibile.
Certo, non decide impulsivamente. È uno che soppesa abbastanza pro e contro, ma se sente di conoscere tutti i fattori di un problema allora arriva in fretta a una conclusione. Quello che sembra un eccesso di riflessione ha più a che fare con la tattica politica. Il presidente potrebbe decidere in materia economica piuttosto rapidamente, ma deve fare i conti col Congresso e non è semplice per lui navigare in quel mare di ostruzionismo» .
Ma il presidente deve essere un navigatore, o almeno sapere chi lo è. Obama non sembra avere una strategia per affrontare la macelleria del Congresso. In questo forse ha davvero fallito. È vero, è riuscito non solo a far passare un pacchetto di misure che i suoi ammiratori non esitano a definire «una salvezza» per il Paese, ma ha anche portato a casa una riforma sanitaria che i Democratici hanno a lungo sognato. Ma è stata talmente ridimensionata da mortificare il suo partito, infiammare la Destra e far guadagnare terreno al Tea Party. La necessità di scendere a sordidi compromessi per arrivare all’accordo lo ha avvicinato a quel sottobosco di Washington che era venuto a bonificare. Ancora peggio, ha portato a una legge poco chiara che ha confuso molti americani, portandoli a pensare che sarebbe stato meglio non averla. A Obama sembra mancare dunque quella particolare abilità da macellaio della politica (Bismark diceva che nessuno vuole sapere come si fanno due cose: le leggi e le salsicce).
Obama non è un mascalzone né un truffatore. Ha sicuramente tonnellate di carisma. Solo non gli importa di distribuirne nemmeno un po’ a deputati e senatori. I potenti si fanno convincere molto più facilmente se altri, più potenti di loro, dimostrano di amarli.
Stranamente Rahm Emanuel, un concentrato di piacioneria unico al mondo, non l’aveva capito, quando era capo dello staff del presidente. E con la maggioranza del Congresso passata ai repubblicani tutto si è fatto più difficile. I dissidenti di sinistra alla Jesse Jackson non vogliono un leader costruttore di ponti. A volte ho l’impressione che aspetti che le ferite si rimarginino da sole. Evita lo scontro diretto. L’ex presidente Lyndon Johnson sapeva di dover combattere contro la discriminazione razziale e di genere negli Stati del Sud, e sapeva di doverli combattere prima politicamente e poi lavorare alla riconciliazione sociale. Obama vuole passare direttamente alla riconciliazione senza combattere.
D’altra parte questo è fondamentale per la sua immagine. Si è sempre presentato non solo come un costruttore di ponti, ma come “il” ponte. Quel che ha fatto di Obama un fenomeno politico unico è che lui, letteralmente, ha scritto da solo la propria storia. In molti casi quando un politico arriva alla ribalta nazionale i giornalisti ricostruiscono la sua storia leggendo gli articoli dei giornali locali, o prendono informazioni tramite le loro fonti per farsi un’idea del nuovo personaggio. Obama invece ha scritto la sua storia nel libro “I sogni di mio padre” prima ancora di apparire sulla scena pubblica.
Eppure questo maestro del racconto, una volta eletto, sembra aver perso il controllo della narrazione. Qualcuno può pensare che questa visione sia uno sproloquio post-moderno o un modo stupido di guardare la politica. Ma dire alla gente che cosa sta succedendo in modo chiaro, perché sta succedendo e cosa succederà poi è parte integrante dell’essere un leader, e soprattutto un presidente americano. Lo stesso Obama ha detto che le migliori soluzioni alla crisi economica potrebbero non essere belle soluzioni.
I colpi di scena della vita reale irrompono nella favola ben raccontata. Il presidente – e come lui quasi tutti gli altri – pensava che l’economia avrebbe mostrato forti segnali di ripresa, ormai. Ma secondo Ron Suskind, autore di un libro critico sulla gestione della crisi economica da parte del presidente, c’è un problema di scollamento. «Anche se le parole di un leader non sono in linea con quello che la gente vuole, se corrispondono però alle necessità del momento la gente dice: “Be’, non sono d’accordo con lui, ma almeno dice le cose come stanno”, il che fa guadagnare punti. Le difficoltà di Obama derivano dalla sua brillante capacità di parlare, di ispirare con le parole. La prudenza che ha caratterizzato la sua azione, del tipo cerchiamo-di-incontrarci-a-metà-strada, anche senza coerenza, un po’ di qua e un po’ di là, non danno l’idea di qualcuno che sappia esattamente dove andare».
Per lo stratega repubblicano Ed Rogers Obama ha perso il suo tratto più distintivo: la chiarezza. «Se si chiede ai sostenitori di Obama, a quelli che l’hanno votato, quali sono le sue cinque priorità, non saprebbero cosa dire. Il suo messaggio si è perso per strada. Quando sei presidente, la gente deve sapere cosa faresti se fossi un dittatore. Che cosa faresti. Non quello che riusciresti a fare, o il Congresso ti farebbe fare limitando il tuo potere. Cosa faresti se fossi un dittatore? La gente non sa cosa farebbe Obama. E questo è un problema. Una debolezza difficile da recuperare».
Ma per Ron Suskind la storia non è finita. «Obama è un leader con capacità straordinarie. È bravissimo. La domanda è: la sua bravura è quella dei grandi presidenti? La bravura dei grandi decisori? È da vedere. Ha pochi mesi per fare qualcosa di davvero incisivo, in parole e opere, prima di entrare nel tunnel della campagna elettorale. Ora o mai più».
I presidenti al secondo mandato, in genere più liberi dalle preoccupazioni politiche sul proprio futuro, possono sorprendere. Potrebbe succedere. Oppure no. Obama deve prima convincere il popolo di essere un leader, anche se ha dei difetti. Un’elezione è una scelta, non il giudizio finale della storia. Non deve dimostrare di essere il miglior leader di tutti i tempi, ma il migliore di questi tempi sì.
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