Caso Turetta
Vera Squatrito, madre di una vittima di femminicidio: «Il mio ergastolo del dolore»
Vera Squatrito, madre di Giordana Di Stefano, riflette sul dialogo intercettato tra Filippo Turetta e il padre lo scorso dicembre. Dopo aver vissuto il femminicidio della figlia, uccisa dall'ex fidanzato, Le sue parole vanno lette in questa cornice: di pene che, spesso, sono molto brevi. Di percorsi alternativi di cui non sempre è chiara l’efficacia
«Il potere della cambiamento è sopravvalutato», osserva Vera Squatrito, mamma di Giordana Di Stefano, la 20enne uccisa il 6 ottobre del 2015 dall’ex compagno da cui aveva avuto una figlia. Le intercettazioni tra Filippo Turetta e il padre (rivelate dalla stampa) l’hanno profondamente scossa. «Quando ho letto il dialogo mi si è gelato il sangue. Ho rivissuto il giorno in cui ho letto le intercettazioni in carcere dell’assassino di Giordana e dei suoi genitori. Le parole erano agghiaccianti e simili, piene di giustificazioni, di sogni, di futuro e di promesse di rieducazione».
«Non dico che bisogna abbandonare un figlio che ha ucciso, ma minimizzare è sbagliato», prosegue. Così facendo, si continua a giustificare la violenza, offrendo all’assassino una visione distorta e senza responsabilità delle proprie azioni».
Come quando si è sotto un forte temporale e non si vedono le nuvole che lo hanno originato.
Noi genitori, osserva Squatrito, «dovremmo essere un esempio, così come lo Stato dovrebbe esserlo. Purtroppo, nonostante processi e condanne, il sistema continua a offrire opportunità come premi, occasioni di lavoro e di studio ai colpevoli. Che uccidere è un reato lo si dimentica in fretta? È chiaro che le uniche condannate all’ergastolo siamo noi madri e padri che sopravviviamo. L’ergastolo del dolore. Al padre di Giulia, voglio dire che ora inizia un lungo calvario, con conseguenze devastanti e un dolore eterno».
Che uccidere è un reato lo si dimentica in fretta? È chiaro che le uniche condannate all’ergastolo siamo noi madri e padri che sopravviviamo. L’ergastolo del dolore
Una promessa di rieducazione?
Le parole di Squatrito sono le parole di una madre che da 9 anni vive con il dolore di una figlia ammazzata, e la responsabilità di crescere una nipotina, che all’ora aveva solo 4 anni.
Il giorno dopo, ci sarebbe dovuta essere l’udienza per stalking. «Giordana lo aveva denunciato ad agosto del 2013. Si erano lasciati sei mesi prima e lui la perseguitava con messaggi, chiamate, pedinamenti, entrando in casa di nascosto». Circostanze non molto diverse da quelle che hanno anticipato la morte di Giulia Cecchettin. Entrambi gli autori di reato tentarono di scappare (uno da Catania a Milano, l’altro da Padova alla Germania); entrambi arrivano al femminicidio dopo una lunga premeditazioni e un lungo periodo di violenza psicologica.
Le sue, è giusto sottolinearlo, non solo parole dette sull’onda dell’emotività. Quando critica la “promessa di rieducazione” che viene offerta agli uomini, Squatrito fa riferimento a un meccanismo particolare.
Infatti, fino all’introduzione del decreto Caivano, (che ha cancellato questa possibilità), la legge italiana prevedeva che il Giudice potesse sospendere il procedimento penale nei confronti dell’autore di violenza attivando una “messa alla prova”, per valutare il suo eventuale cambiamento», spiega il criminologo Paolo Giulini, cofondatore del Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) che vanta una trentennale esperienza con maltrattanti e autori di femminicidi. «Al termine del percorso (che poteva durare al massimo tre anni) il Giudice decideva se dichiarare l’estinzione del reato oppure se procedere con il processo», dice. La messa alla prova era prevista anche per reati tremendi come l’omicidio e lo stupro. «Ciò che contava, infatti, non era la gravità del reato quanto capacità del minore di recuperare».
Ma questa non è l’unica misura alternativa al carcere. La legge prevede inoltre che gli uomini autori di violenza possano frequentare un centro specializzato per seguire un trattamento di gruppo psicoeducativo. L’accesso al trattamento avviene attraverso la normativa del “Codice Rosso“, (entrata in vigore il 9 agosto 2019), in base alla quale il giudice può decidere di inviare l’autore ad un percorso trattamentale specifico. In questo caso il percorso può essere vissuto sostanzialmente come un obbligo da adempiere, per scongiurare la detenzione o alleviare la pena. Sono rari i casi in cui gli uomini accedono al percorso in virtù di una domanda spontanea.
Le parole di Squatrito quindi vanno lette in questa cornice. Di pene che, spesso, sono molto brevi. Di percorsi alternativi di cui non sempre è chiara l’efficacia, dato che la frequentazione (non l’esito) riduce gli anni di detenzione.
Lo testimonia anche Giuliana Reggio, la madre di Jessica Filianti, la giovane reggiana 17enne vittima di femminicidio nel lontano 1996 e donna simbolo della lotta alla violenza sulle donne, in un’intervista a Stefania Prandi, giornalista e autrice del libro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta” (settenove). Secondo la madre, (cito da pag. 31 del libro) «le donne continuano a venire ammazzate a causa delle pene poco severe. «Sanno che escono. Vorrei vedere cosa succederebbe se buttassimo le chiavi e li lasciassimo a pane e acqua. Invece dentro si laureano e una volta fuori si rifanno una vita. L’assassino di Jessica adesso è un informatico e ha una figlia. Gli avevano dato l’ergastolo inizialmente, poi la pena è stata ridotta e tra sconti e buona condotta è stato in carcere sedici anni».
Prandi cita un altro caso: Monica Da Boit è stata uccisa di botte a trentuno anni dal compagno Giampaolo Regazzini. Era la notte del 14 ottobre 2005. Regazzini è stato condannato a quattordici anni ma, con l’indulto del 2006, la pena è stata ridotta a sette.
La frequentazione (non l’esito) riduce gli anni di detenzione
Quando due anni fa, a Vicenza, Zlatan Vasiljevic ha assassinato l’ex compagna, Lidia Miljkovic con la quale aveva avuto due figli, e Gabriella Serrano con la quale conviveva di lui si è saputo che nel 2019 era stato arrestato per avere ripetutamente maltrattato la moglie e nel 2020 era stato seguito per sette mesi da un centro dedicato agli uomini autori di violenza: 20 colloqui della durata di 50 minuti con uno psicologo dell’associazione Ares di Bassano. «Noi certifichiamo solo la frequenza al corso e ci atteniamo al protocollo», avrebbero detto i professionisti, interpellati dalla stampa .
Poche ore dopo, di fronte al moltiplicarsi di femminicidi, Antonella Veltri, la Presidente di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, aveva tuonato: «i percorsi dedicati ai maltrattanti sono presentati come la panacea di tutti i mali e stanno diventando una sorta di scorciatoia per la riabilitazione dei violenti. Non basta un breve percorso per un cambiamento profondo e per arginare la violenza».
Nella foto in apertura: Vera Squatrito (foto fornita da lei)
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