Politica

Venturi (Aiccon): «Recovery Fund, un futuro debole sta generando un piano debole»

La complessità postula la costruzione di governance, non di open government: nel Recovery Plan del Governo, spiega il direttore di Aiccon, manca l'effetto leva e la capacità di attivare i soggetti. C'è una visione obsoleta, che non valorizza asset, luoghi, generazioni e mortifica la dimensione sociale

di Marco Dotti

Mentre la politica discute sui poteri legati al Recovery Plan, poco si riflette sui temi e, di conseguenza, sulla cornice che il Piano sta disegnando. Eppure è proprio da questo livello del discorso che dipenderà il futuro del nostro Paese. Saremo capaci di non disperdere energie e risorse?


Ma, soprattutto, quale visione-Paese esce dal Piano pomposamente chiamato "Piano di Ripartenza e Resilienza", che dovrebbe rappresentare il programma di investimenti che l'Italia porterà alla Commissione europea nell'ambito del Next Generation EU, lo strumento per rispondere ala crisi pandemica provocata dal Covid-19?

Ne parliamo con il direttore di Aiccon, l'economista Paolo Venturi.

Leggendo le bozze del documento che sta circolando in questi giorni che idea si è fatto?
Avevo letto le prime quaranta pagine delle linee guida approvate a suo tempo e, ora, questo documento che sembra essere lo strumento con cui iniziare a rendere concreta la richiesta da presentare a Bruxelles. Giudizio: deludente.

Quali sono i punti critici?
Primo punto, che a mio avviso è costituisce il peccato originale di questo documento: vogliono immaginare una ripartenza. Il vero tema, però, è che non siamo mai stati fermi. Si vuol far passare l’idea che siamo stati fermi, invece ci siamo mossi più di prima perché abbiamo visto cosa serve, cosa funziona e cosa no, che cosa è importante e cosa non lo è. Anche solo disegnare un Piano che ci riporti a prima del Covid, prendendo una serie di dati o di gap e cercando di ripristinarli, è profondamente sbagliato.

Se non abbiamo bisogno di una ripartenza, di cosa abbiamo bisogno?
Abbiamo bisogno di disegnare il dopo. Ed è qui che il piano fallisce: fallisce prima di essere messo a terra e di essere approvato perché elude la grande questione del “dopo”. Il Piano è innestato su un futuro debole e i futuri deboli generano piani deboli.

Nessuno, però, può dire cosa succederà domani…
Però il desiderio di fissare una meta e arrivare in un punto di arrivo, in un contesto particolarmente complesso come quello di oggi, è fondamentale. Il Piano, però, non tiene conto minimamente dell’accelerazione della complessità che stiamo vivendo. La certificazione che sia un Piano debole innestato su un futuro debole la troviamo nel fatto che abbiamo paura di spendere i soldi che ci vengono messi a disposizione.

Senza una meta, finiremo per disperderli quei soldi, anziché spenderli davvero…
È nata persino la paura della rendicontazione. Non siamo spaventati dal non raggiungere gli obiettivi che ci diamo, ma dalla paura di dar conto di come spenderemo o non spenderemo.

Lei accennava a un secondo punto critico…
Quelli del Piano sono soldi che ci prestano le giovani generazioni. Ma dentro il Piano non c’è traccia del fatto che si stia disegnando un mondo e un luogo per loro più ospitale e più felice. Proviamo a fare un esperimento: prendiamo dei giovani e facciamo leggere loro il Piano e prendiamo altri giovani e facciamo leggere loro dei quotidiani sportivi. Alla fine di questa lettura, dovremmo trovare in chi ha letto il Piano una maggiore motivazione e maggior desiderio.

Invece…
Invece è lo scoramento totale e c’è una totale incapacità di stare sulle pagine del Piano. Non è un progetto motivante e, come tale, non produrrà cambiamento. I cambiamenti non nascono dalla redistribuzione, ma dall’attivazione. La possibilità di uscire da una situazione di difficoltà non nasce solo dalla capacità di rispondere a bisogni, ma anche dalla capacità di immaginare mondi, ripristinare il campo della fiducia legandola a qualcosa di desiderato. Non parlo di facile sentimentalismo, parlo di attivazione: senza attivazione, non c’è trasformazione.

Fare cose che siano motivanti permette di generare cambiamenti impensati… Perché è accaduto?
Penso ci si sia basati molto su logiche di consultazione e si sia poco conversato, aprendosi poco a un pensiero divergente. Come è stato costruito il Piano ci porta davvero a interrogarci sulla società civile. Penso a cosa diceva e faceva Vaclav Havel quando dialogava con quelle che chiamava le “polis parallele” non certo per sostituire la politica, ma per farla davvero. Oggi è mancata la capacità di includere l’enorme ricchezza della società civile in una logica conversazionale, non da task force.

Questo in termine di approccio, ma in termini di dettaglio?
Il Piano sembra un assemblaggio di singoli progetti. L’Europa ci ha dato i temi, i titoli e anche un po’ di percentuali in cui iscrivere il nostro Piano. Il resto dovevamo farlo noi come Paese, ma… Stiamo costruendo un puzzle che delinea uno scenario assolutamente grigio e dove non si vede profondità. In più, questo assemblaggio di progetti delinea un profilo già noto. Sono progetti che, in gran parte, esistevano già e sono stati inseriti nel Piano come ultima chance per essere finanziati, ma senza grande convinzione anche da parte degli estensori. Progetti che non disegnano un luogo e un mondo profondamente cambiato come si doveva fare.

Dietro ogni missione ci sono altrettanti paradigmi…
Anche questi paradigmi sono consumati. Primo paradigma: l’innovazione associata in maniera deterministica al digitale. La digitalizzazione dovrebbe essere un mezzo per attivare altro, ad esempio la cura: non si tratta di adeguare l'esistente al digitale, ma di ricomporre le relazioni territoriali in altro modo. Secondo paradigma: il green e la circular economy sono giocati come fini a se stessi, mentre dovrebbero essere la piattaforma per lo sviluppo locale e non l’occasione per la mera riconversione di aspetti industriali.

Che cosa ne esce, in definitiva?
Ne esce una lettura a silos. La complessità postula la costruzione di logiche non tanto di open government, ma di governance. il Piano manca di questo: manca della capacità di attivare la comunità in termini di governance creando coalizione di soggetti che non sono tali perché ricevono fondi, ma si attivano a cofinanziano. Pensiamo al tema della cultura: nel Piano è derubricato alla voce “Cultura-Turismo”, mentre doveva essere la base stessa della visione. O al tema della rigenerazione, derubricato come “riqualificazione”. Esempi che ci dicono che escludendo la complessità è stata fatta fuori la possibilità di costruire soluzioni fra soggetti interdipendenti. Nel Piano manca ogni logica di governance. Nel Piano mancano veri obiettivi, intesi come obiettivi di cambiamento. Nel Piano, infine, non c’è effetto-leva, né nelle motivazioni e nemmeno dal punto di vista economico.

Il Terzo settore come ne esce dal Piano?
Doveva essere un Piano che lavorava sul tema della dimensione sociale: coesione sociale, inclusione sociale, salute, circular economy. Nel Piano di sociale c’è ben poco. Manca soprattutto l’apporto possibile e necessario della società: i cittadini sono visti come utenti, non come generatori di processi dal basso. Manca la società, dunque, ma manca anche la socievolezza ossia la capacità di creare legami e relazioni. Il cambiamento è in gran parte un’infrastrutturazione relazionale, cosa che il COVID-19 ha minato profondamente.

Abbiamo ancora margini?
Mi auspico ci siano. Ovviamente nel Piano ci sono anche cose positive, ma si perdono dentro una visione viziata all’origine. Dobbiamo lavorare su quella.

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