Mondo
Venezuela, l’esodo del 25% della popolazione
Il Paese latinoamericano sta per superare la Siria per il numero di rifugiati e profughi che esporta. Il tasso di povertà a Caracas è pari al 94,5% del totale della popolazione. Il salario minino - comprensivo di sussidio alimentare - è meno di 2 euro al mese. In campo per il sostegno alla popolazione diverse ong e associazioni italiane e internazionali. La testimonianza di monsignor José Ángel Divassón Cilveti, salesiano che vive nella capitale
di Paolo Manzo
Il Venezuela sta per superare la Siria per il numero di rifugiati e profughi che esporta, pur non essendo il suo governo in guerra contro nessuno se non contro la sua stessa popolazione. La stima è infatti che il numero di chi lascerà il paese aumenterà di un milione entro fine 2022, sfondando la cifra dei 7 milioni di migranti su una popolazione di 30 milioni, ovvero il 25% del totale.
I dati, tragici, li ha forniti qualche giorno fa il capo dell’Ufficio dell’Organizzazione degli Stati americani (OAS), che si occupa dei rifugiati venezuelani, David Smolansky. Se nulla di concreto cambierà nel brevissimo termine nel Paese sudamericano – e nulla lascia intendere che così sarà – si arriverà dunque a sette milioni di venezuelani fuggitivi. Secondo i dati dell’OAS, negli ultimi sei anni 1,8 milioni di venezuelani sono emigrati in Colombia, 1,1 milioni in Perù, 520mila negli Stati Uniti, 460mila in Cile, 450mila in Ecuador, 270mila in Brasile, 230mila nei Caraibi, 180mila in Argentina e 103mila in Messico. Il resto della diaspora, per un totale ad oggi di oltre sei milioni di rifugiati (qui il link con la fonte Onu), è disperso nel resto del mondo, soprattutto nell’Unione europea, con la Spagna in testa. «La dittatura di Maduro ha prodotto più migranti e rifugiati del regime talebano», sintetizza il premio Pulitzer Andrés Oppenheimer, che ha raccolto i dati di Smolansky analizzando le tre principali cause per cui il numero dei migranti venezuelani continua a crescere, senza sosta.
La prima ragione è tragicamente semplice: la crisi umanitaria complessa che da anni affonda il Paese sudamericano non accenna a diminuire, anzi. Secondo l’ultima ricerca dell’Università Cattolica Andrés Bello, che ha reso noto i dati a fine settembre, attualmente il tasso di povertà a Caracas è pari al 94,5% del totale della popolazione. Del resto il salario minimo in Venezuela, pur includendo un sussidio alimentare obbligatorio, è di meno di due euro al mese. Sì, avete letto bene: meno di due euro al mese in un Paese dove il costo della vita è pur sempre circa la metà di quello italiano. In sostanza è come se i lavoratori italiani percepissero in proporzione meno di 5 euro al mese di stipendio. Non a caso oggi oltre il 50% dei venezuelani in età lavorativa non ha un’occupazione né la cerca, come rivela lo studio intitolato “Indagine nazionale sulle condizioni di vita 2021” che è stato realizzato sulla base di 14mila interviste fatte in tutto il Venezuela.
Nella maggior parte dei casi, le persone hanno infatti lasciato la propria occupazione per un motivo drammaticamente semplice: costa di più pagare i mezzi pubblici per andare al lavoro che restarsene a casa. L’iperinflazione, che sfiora il 5000%, ha infatti reso la valuta venezuelana una barzelletta: un dollaro oggi vale 4,3 milioni di bolivar e per risolvere il problema il presidente Nicolás Maduro non ha trovato di meglio che eliminare sei zeri dal conio, introducendo il cosiddetto “bolivar digitale” dal primo ottobre scorso. Unico cambiamento reale è che un biglietto dell’autobus adesso non costa più un milione di bolivar “sovrani” (la valuta “pensionata”) bensì un bolivar “digitale”. Ma il problema rimane, visto che lo stipendio che percepisce la gran parte dei lavoratori dipendenti è oggi pari a 10 bolivar “digitali”, poco più di niente. Maduro ha dollarizzato di fatto l’economia senza però fare del “biglietto verde” la valuta avente corso legale, per cui gli unici venezuelani che possono vivere dignitosamente nel Paese oggi sono quelli che ricevono rimesse familiari in dollari dall’estero, ma che sono però solo una piccola percentuale della popolazione totale.
La seconda ragione che spiega la diaspora infinita dei venezuelani sono i negoziati tra il regime e l’opposizione, che dopo un inizio promettente – tra metà agosto e inizio settembre – adesso ristagnano e molto probabilmente non si tradurranno in nessuna apertura politica significativa che possa dare speranza per il futuro. I dialoghi riprenderanno il 15 di ottobre ma in Venezuela si vota per le amministrative già il prossimo 21 di novembre. Visti i negoziati “fermi”, dà da pensare che negli ultimi anni, l’esodo venezuelano sia cresciuto proprio dopo ogni tentativo fallito di tenere elezioni eque e libere. Infine, a stimolare l’esodo venezuelano nei prossimi mesi, c’è anche un terzo fattore: i paesi dell’America Latina man mano che vaccinano più persone contro il Covid-19 allenteranno le restrizioni di viaggio in entrata già sul finire del 2021. Saranno dunque ancora di più i venezuelani che, data la situazione in patria, approfitteranno di questa riapertura per tentare la via migratoria. «L’esodo non cesserà se non si agirà sulla sua causa», assicura Oppenheimer nel suo programma settimanale sulla CNN, «ovvero una dittatura brutale che secondo le Nazioni Unite dal 2014 ad oggi ha ucciso più di 7mila manifestanti pacifici e la cui corruzione e inettitudine ha creato la peggiore crisi umanitaria nella regione degli ultimi 50 anni».
In questo contesto disperato e senza sbocchi apparenti, oggi sono presenti in Venezuela, per portare un po’ di solidarietà e tutto l’aiuto possibile, molte ong ed associazioni, italiane ed internazionali, alcune delle quali presenti nel nostro prestigioso Comitato editoriale. L’altro giorno, facendo una rapida conta su Internet, ho trovato online bei progetti di Avsi, Cisv, Intersos, Missioni Don Bosco, Save the Children, Croce Rossa, Msf, Caritas ed altre ancora, tra cui l’Associazione casa Italo Venezuelana di cui mi pregio di essere socio onorario.
A testimoniare cosa significhi in questo momento sopravvivere in Venezuela è Monsignor José Ángel Divassón Cilveti, salesiano che è stato per quasi vent’anni vescovo nella città amazzonica di Puerto Ayacucho e che ora risiede nella capitale Caracas. «La condizione di vita, se non è peggiorata in termini assoluti dopo l’ulteriore aggravamento a causa della pandemia da Covid-19 (rispetto alla quale non si vedono risposte efficaci), è sicuramente aggravata dalla perdita di fiducia nella possibilità di vedere la fine del tunnel», ci racconta. Anzi, «il dramma del Venezuela sembra proprio risiedere nel congelamento di ogni spazio di manovra per risolvere l’emergenza umanitaria complessa determinatasi oramai da tempo».
Le Missioni Don Bosco sono presenti in Venezuela in modo capillare. «In questo momento i tanti nostri progetti sono di puro sostegno alimentare e sanitario», ci spiega Antonio Labanca, addetto stampa delle missioni «mentre le scuole di formazione professionale e le parrocchie proseguono le loro attività come possono nella dispersione totale anche a causa del Covid-19». Per inquadrare il problema del sopravvivere oggi in Venezuela, Monsignor Divassón cita il suo recente incontro con una funzionaria statale in pensione, che si trova in una ristrettezza tale da non poter accedere alle cure mediche. «È uno dei milioni di casi in cui i cittadini devono trovare qualche via sommersa per sopravvivere. Le persone qui si arrangiano: si prende qualcosa e si va avanti. I salari pagati ai lavoratori sono ridicoli. Avendo superato i 70 anni, io sono pensionato ma quanto percepisco non arriva all’equivalente di 1 euro al mese. Ho la fortuna di vivere in una comunità e insieme ci aggiustiamo, possiamo avere risorse, soluzioni da qualche altra parte. Ma la gente povera no». Questo chiarisce perché 6 milioni di Venezuelani hanno già lasciato il Paese per emigrare altrove: «Se ne sono andati perché qui non c’era più assolutamente speranza».
C’è chi attende qualche forma di provvidenza dello stato, che comunque non determinerebbe un reale miglioramento economico. «Tutti» continua Monsignor Divassón «vivono senza libertà e in condizioni umilianti. Non si vede e non c’è nessun motivo per il quale si possa dire che questo cambierà». La realtà è spesso ignorata, taciuta o distorta, e l’opinione pubblica internazionale non è informata di quanto accade in Venezuela. Appare una situazione “normale” nel contesto sudamericano, mentre si avverte sotto traccia una protesta soffocata. «Tutti dicono di cercare il dialogo, e teoricamente siamo tutti d’accordo. Ma questa strada non si può più praticare» osserva il vescovo.
Risulta che la presidenza di Nicolás Maduro, ininterrotta dal 19 aprile 2013, abbia di fatto vanificato l’opera di mediazione della Santa Sede, che tre anni fa propose precisi impegni di ciascuna parte politica quale condizione per proseguire nel dialogo. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ha riconosciuto che mentre i rappresentanti dell’opposizione avevano rispettato gli impegni presi, gli esponenti del governo non hanno mantenuto la parola. La Conferenza episcopale venezuelana ha denunciato l’assenza di reale volontà di conciliazione politica, ma non si stanca di sostenere gli sforzi di dialogo. Ma Monsignor Divassón non perde un filo di speranza. «Abbiamo ricevuto molta solidarietà, anche da fuori. Si potrebbe fare senz’altro molto di più, lo so in virtù della mia esperienza a Puerto Ayacucho. Ci sono molte persone dappertutto che vogliono aiutare. Bisogna trovare le modalità perché gli aiuti possano arrivare dove serve, e molti hanno coscienza di doverlo fare».
Anche di fronte all’esigenza di uscire dall’attuale impasse politica si ripropone una residua disponibilità della gente, di cui monsignor Divassón si fa portavoce: «Bisogna dialogare, bisogna trovare un’espressione della volontà popolare. Chi deve avere l’ultima parola sono le persone, il Paese, i cittadini, ai quali dare la sicurezza di poter parlare e scegliere».
In apertura foto di Missioni don Bosco in Venezuela
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