Famiglia

Vanno in campo quelli del campo profughi

Quattro squadre maschili e una femminile. La tournée dei cooperanti italiani sta restituendo gioia ai ragazzi e alle ragazze di Gaza e della Cisgiordania di Gianluca Iazzolino

di Gianluca Iazzolino

Non ci sono curve, tribune, cartelloni pubblicitari o sale stampa attorno al campo di calcio del Burj Luq Luq, la Torre del Fenicottero. C?è però una gradinata su un lato e, sull?altro, uno dei paesaggi urbani più sacri del mondo: quello di Gerusalemme. Lo striscione con la scritta «Un calcio all?assedio» guarda proprio la spianata delle moschee e la cupola di Al Aqsa è giusto incorniciata dai pali della porta. Ragazzi palestinesi e italiani dribblano e sgomitano inseguendo un pallone da calcio mentre dagli spalti altri urlano Jalla!, andiamo, come ossessi. L?intifada, il muro, il blocco degli aiuti europei oggi sono lontani anni luce: il torneo Sport sotto assedio vuol essere un?enclave di pace in una situazione che in pace non è. E, a quanto pare, ci riesce. «Volevamo fare del gioco più famoso del mondo un veicolo di solidarietà», dice Luca Colombo dell?associazione Jalla03 di Milano, che ha organizzato il torneo per il secondo anno consecutivo. Sono 62 gli italiani, ragazze e ragazzi dai 20 ai 50 anni, arrivati in Palestina per disputare nella settimana di Pasqua gli incontri del torneo itinerante, non competitivo, giocato con squadre palestinesi di Gerusalemme e di campi profughi nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. Il Burj Luq Luq, il maggiore centro giovanile di Gerusalemme est, dà il benvenuto a quattro squadre maschili da 11 giocatori, più una femminile. Doveva partecipare anche un gruppo danese, ma dopo le polemiche scoppiate in seguito alla pubblicazione delle vignette su Maometto, lo scorso inverno, si è preferito prendere tempo. Tocca quindi agli italiani dare l?assist al dialogo, strappando per una settimana i campi profughi al loro isolamento. Il che ha un significato ancora maggiore nel momento in cui il quartetto dei donatori internazionali tiene l?Autorità palestinese sulle spine con il congelamento degli aiuti umanitari. «Anche se i governi sono ai ferri corti, la società civile non sta a guardare», dice Ziad Abbas, fondatore dell?Ibdaa, un centro multifunzionale nel campo profughi di Deishe, periferia di Betlemme. «Non siamo nuovi a queste iniziative. Lo sport è al centro delle nostre attività. E sappiamo quanto possa essere utile per trasmettere valori e dare una disciplina. è il nostro contributo alla pace e alla democrazia». Quaggiù le giornate sono scandite dai rastrellamenti israeliani, e i ragazzini corrono soprattutto davanti ai blindati e dopo aver lanciato sassi. La carovana calcistica è non solo un testimone di pace ma un vero e proprio filo conduttore di storie. Ad Al Fawwar, un campo da 6mila persone nei dintorni di Hebron, la partita contro la squadra locale offre la possibilità di toccare con mano la povertà . «Il nostro centro è l?unica luce per questi ragazzi», dice Monhir Jawabreh, il direttore del centro giovanile, un insegnante che non prende lo stipendio da un paio di mesi. A Gaza si entra in bermuda e scarpette in una prigione a cielo aperto. A Jerico, ragazze palestinesi in pantaloni lunghi della tuta dribblano calciatrici nostrane. Leyla, 25 anni, sopporta persino il velo pur di giocare: «Un compromesso con mio padre», spiega. Yusra Swailty, presidentessa del Nadi Baladna (La nostra patria), l?unico club femminile palestinese, rivela che «la vittoria maggiore è riuscire a portare i genitori allo stadio per vedere la figlie». Quando si muovono, gli italiani sono accolti come star. Ci si insegna a vicenda, non a giocare ma ad apprezzare lo sport, spesso con una cortesia tutta mediorientale. Tanto che ci vuole Hazeem, 27 anni, di Deishe, uno studente di legge già ferito dagli israeliani, per sentirsi dire che «il calcio italiano è il più bello del mondo».

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