Idee
Valorizzare le differenze a scuola, tra wonderland e rivoluzione
La scuola ha a che fare con tantissime differenze, legate alla cittadinanza, alla storia familiare, all’orientamento sessuale, alle fragilità. È davvero possibile valorizzarle? A che condizioni? Un convegno per dire in verità che non basta includere le differenze, occorre avere il coraggio di cambiare il sistema
Milano, 2023. Mentre per le vie della città impazza la fashion week con il suo coté di stravaganze e provocazioni, una scuola primaria respinge la richiesta di una alunna di indossare il grembiule nero corto, come quello dei maschi. Non si può fare. Le bambine devono fare le bambine, all’intervallo devono chiacchierare fra loro, non certo correre e scatenarsi e per chiacchierare il grembiule lungo non dà alcun fastidio. Un non-detto, ovviamente, ma il retropensiero è questo. È solo un esempio del rapporto incompiuto che la scuola italiana, oggi, ha con le differenze e con la valorizzazione delle differenze: che siano legate alla cittadinanza, alla storia familiare, all’orientamento sessuale, alle fragilità. In altre parole con l’inclusione, a tutti i livelli.
L’occasione per raccogliere testimonianze e riflessioni è stato il convegno organizzato dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca nell’ambito delle celebrazioni dei suoi 25 anni e dal Centro italiano aiuti all’infanzia-Ciai (che di anni ne compie 55). Il titolo, diciamocelo, era scivoloso: “Il meraviglioso mondo delle differenze. Inclusione e valorizzazione nella scuola”. Un po’ da Alice in the wonderland e un po’ da utopisti. Invece non è stato nulla di tutto ciò.
Tanti i temi toccati, in questo caleidoscopio di differenze: i minori adottati con adozione internazionale, i minorenni migranti soli, i bambini e ragazzi con cittadinanza non italiana – sempre meno di primo arrivo e sempre più figli se non nipoti di migranti – e i profughi ucraini, gli alunni con disabilità, DSA e BES, quelli che stanno affrontando un percorso identitario legato al genere o all’orientamento sessuale. Le differenze che quotidianamente arrivano sui banchi di scuola sono tantissime e per tutte la scuola è un po’ un’avanguardia, con gli inseganti che portano anche le loro fragilità, che non hanno affrontato questi temi nella loro formazione universitaria né nella loro formazione continua, che sempre più spesso, anche tra le nuove leve – ha ricordato il presidente del Ciai, Paolo Limonta, che è anche maestro di scuola primaria – hanno paura di essere rivoluzionari.
I nuovi insegnati devono entrare a scuola con uno spirito rivoluzionario, perché c’è bisogno di rivoluzionare la scuola. Invece nei più giovani vedo tanta paura
Paolo Limonta, maestro e presidente del Ciai
Come valorizzare allora le differenze, senza che questo sia un discorso meramente idealista o retorico? Le piste di riflessione che mi sono parte più interessanti sono state quelle tracciate da Anna Granata, professoressa associata del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università Bicocca e da Rosy Paparella, insegnante, educatrice e formatrice, già Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Puglia, che hanno messo a tema rispettivamente l’accoglienza degli alunni di origine straniera e con bisogni educativi speciali. Le riassumo qui.
Il bambino ha 100 lingue ma gliene rubano 99
«Il bambino ha cento lingue, ma gliene rubano novantanove»: è il verso di una poesia di Loris Malaguzzi, che ben descrive le potenzialità e le sfide dei percorsi dei bambini di seconda generazione. «Una denuncia in forma di versi», ha sottolineato Anna Granata, «che ci ricorda come noi, con le nostre istituzioni educative, selezioniamo le lingue, le intelligenze, i modi di comportamento, i modi di imparare che vanno bene e rigettiamo tutti gli altri». Il report annuale del ministero dell’Istruzione, pubblicato ad agosto 2023, attesta che nell’anno scolastico 2021/22 gli alunni con cittadinanza non italiana erano 872.360, con un incremento di quasi 7mila unità (+0,8%) rispetto all’anno prima ma ancora sotto la cifra per ora massima dell’anno scolastico 2019/20, quando erano 876.801. Rappresentano il 10,6% degli studenti e sono l’unica parte della scuola che cresce: nel 2021/22 infatti il totale degli studenti è calato di oltre 102mila unità, a causa del calo degli studenti italiani (oltre -109.000 unità) che supera ampiamente l’aumento degli studenti con cittadinanza non italiana.
Nati in Italia da genitori con cittadinanza non italiana (secondo il report i nati in Italia sono il 67,5% degli studenti con cittadinanza non italiana), sempre più spesso nemmeno figli ma addirittura nipoti di persone che hanno affrontato il percorso migratorio, questi bambini parlano fluentemente due o più lingue, hanno un bagaglio di culture ed esperienze che la nostra scuola non valorizza. «Ci pare un problema addirittura avere in classe un bambino madrelingua inglese. Vediamo solo quello che manca, che non c’è ma questo non è uno sguardo pedagogico», ha ribadito Granata, che ha ricordato come Rita Sidoli, già professoressa di Pedagogia Speciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, diversi anni fa avesse contato fra gli alunni iscritti alle scuole italiane la bellezza di 191 lingue, che la scuola assolutamente non valorizza. «Questi bambini scoprono di essere stranieri, c’è un momento di confine in cui qualcun altro fa loro scoprire di essere stranieri nella terra in cui sono nati: questo genera una questione identitaria seria. Così cresciamo una società di esclusi», ha detto Granata, facendo un primo richiamo al rischio della retorica della diversità: «Non ci può essere valorizzazione delle diversità senza riconoscimento dei diritti e senza piena consapevolezza delle disuguaglianze. La prima disuguaglianza è quella della cittadinanza. Nella formazione degli insegnanti la sensibilizzazione sul tema delle disuguaglianze non c’è».
Non ci può essere valorizzazione delle diversità senza riconoscimento dei diritti e senza piena consapevolezza delle disuguaglianze. Nella formazione degli insegnanti questo tema non c’è. La prima disuguaglianza è quella della cittadinanza.
Anna Granata, Università Bicocca
Secondo esempio, il white flight: la “fuga dei bianchi”, che iscrivono i propri figli in scuole più lontane da casa ma considerate di maggior qualità o con una migliore utenza. Una fuga dal proprio quartiere perché “i bambini stranieri rallentano il programma”. «Io questa convinzione ho cercato di smontarla per anni, fra i genitori e fra gli insegnanti, ma ora ho smesso di farlo», ha confessato Granata. «Ho smesso per non assecondare l’idea della corsa all’apprendimento, l’ansia da prestazione, la ricerca della scuola con la sperimentazione giusta e poi delle superiori che selezionano l’accesso in base ai voti, contro il dettato costituzionale… Io adesso voglio dire che tutto quello che ci fa rallentare è un bene, perché noi abbiamo bisogno di rallentare, di imparare a raccontarci, di imparare a pensare, di imparare a diventare cittadini».
Per anni ho cercato di smontare, fra genitori e insegnanti, la convinzione che “i bambini stranieri rallentano l’apprendimento della classe”, ma ho smesso di farlo. Ho smesso per non assecondare l’idea della corsa all’apprendimento, l’ansia da prestazione. Io adesso voglio dire che tutto quello che ci fa rallentare è un bene, perché noi abbiamo bisogno di rallentare
Anna Granata
Per questo Granata ha lanciato una provocazione: «Dobbiamo riuscire a portare dentro la scuola degli sguardi diversi, per esempio sguardi maschili, sguardi di persone che hanno altre traiettorie di vita. Siamo preoccupati che a ingegneria le ragazze sono solo il 20% ma a scienze della formazione primaria i ragazzi sono appena il 5% e questo pare non preoccuparci. E poi teniamocela stretta l’idea di inclusione, sì, ma dobbiamo anche provare ad andare oltre: non abbiamo fretta di includere questi bambini in un sistema, perché questo nostro sistema scolastico non è perfetto. Apriamoci invece a cambiarlo il sistema, anche grazie alle loro differenze che diventano delle opportunità di rivedere il nostro mondo».
Teniamoci stretta l’idea di inclusione, sì, ma proviamo anche ad andare oltre: non abbiamo fretta di includere questi bambini nel nostro sistema, perché questo nostro sistema scolastico non è perfetto. Apriamoci invece a cambiarlo il sistema
Anna Granata
Il tempo che ci vuole
L’intervento di Rosy Paparella è stato dedicato invece agli alunni con bisogni educativi speciali, a dieci anni dalla direttiva del 27 dicembre 2012 che ha introdotto nella scuola un Piano Didattico Personalizzato-Pdp per gli alunni con BES. «Una direttiva piombata dall’alto, un po’ a sorpresa, nebulosa sia sugli strumenti da mettere in campo sia sulla definizione», ricorda Paparella. In dieci anni sono accadute molte cose, prima fra tutte l’esplosione delle certificazioni e dei numeri degli alunni con Piano Didattico Personalizzato per via di un bisogno educativo speciale.
Il primo affondo riguarda il linguaggio: «Sempre più spesso sento insegnanti dire “in classe ho 4 DSA e 3 BES”. Un’operazione semantica apparentemente innocua, in realtà molto pericolosa perché si tratta di una operazione di sovrapposizione identitaria: se faccio dei Bes una categoria identitaria, rischio di spostare tutto il problema all’interno dell’alunno, come se il problema fosse nell’alunno e non nella scuola. In quest’ottica prende piede il paradigma del deficit, che come insegnanti ci porta a descrivere nel dettaglio ciò che all’alunno manca. È un discorso vecchio, già fatto per l’integrazione delle persone con disabilità, ma siamo ancora qui. Perché poi allora una scuola classifica come Bes qualcosa che per un’altra scuola non lo è? Non è che rischiamo di diventare, come diceva don Milani, una scuola che è come un ospedale che cura solo i sani?», ha detto Paparella.
Sempre più spesso sento insegnanti dire “in classe ho 4 DSA e 3 BES”. Un’operazione semantica apparentemente innocua, in realtà pericolosa perché si tratta di una operazione di sovrapposizione identitaria: se faccio dei Bes una categoria identitaria, rischio di spostare tutto il problema all’interno dell’alunno, come se il problema fosse nell’alunno e non nella scuola.
Rosy Paparella, formatrice
Nel secondo punto, ha preso la questione dal punto di vista degli operatori delle neuropsichiatrie infantili, medici e psicologi che raccontano di essere «schiacciati da questo aumento di richieste di certificazioni e diagnosi, ancora più faticoso nel momento in cui sono alle prese con un’esplosione della sofferenza psichica degli adolescenti. La loro voce riferisce che oggettivamente moltissime delle richieste di diagnosi e certificazione sono troppo precoci e per motivi del tutto generici: stiamo chiedendo cioè di far entrare in una condizione clinica qualcosa che in realtà ha solo bisogno di un intervento educativo da parte dei genitori e degli insegnanti, della pedagogia. Il modello biomedico è rassicurante e utile, ma è pericoloso nella misura in cui mette sullo sfondo l’aspetto educativo: ma se insegnamento e apprendimento sono una interazione, non sarebbe più onesto spostare lo sguardo dai “disturbi dell’apprendimento” ai “disturbi dell’insegnamento”?».
Il modello biomedico della certificazione è rassicurante e utile, ma è pericoloso se mette sullo sfondo l’aspetto educativo: se insegnamento e apprendimento sono una interazione, non sarebbe più onesto spostare lo sguardo dai “disturbi dell’apprendimento” ai “disturbi dell’insegnamento”?
Rosy Paparella
Terzo aspetto, «la faccenda dei Bes ha aperto ulteriormente la voragine tra scuola e famiglia, con scambi di accuse reciproci: i genitori accusano la scuola di trincerarsi dietro gli aspetti burocratici, con dei Pdp meravigliosi ma che esistono solo sula carta – ed è spesso vero, mentre gli insegnanti criticano genitori ostili, non collaborativi, propensi a usare la diagnosi solo per ottenere percorsi facilitati. Un “tilt” che ha le sue radici in quello che Stefano Benzoni chiama “brodo prestazionale continuo”, in cui tutti siamo immersi, studenti, adulti e scuole, per cui tutti siamo spronati ad essere speciali, con una corsa all’eccellenza che genera la sensazione di essere solo dei materiali di scarto in tutta quella popolazione che impara con tempi e modi non considerati standard», evidenzia Paparella.
Quarto sguardo, è proprio quello degli studenti: «L’inclusione ha come principio la partecipazione attiva dei soggetti da includere, ma io non ho mai visto nelle scuole percorsi che includano la partecipazione dei ragazzi. Come ci ricorda Vera Gheno invece includere non significa invitare qualcuno a una festa da ballo ma creare le condizioni perché quel qualcuno faccia parte del comitato organizzatore».
Insomma quella direttiva di dieci anni fa «ci ha consegnato un obiettivo irrealistico, quello di promuovere l’inclusione con percorsi sartoriali in classi di 25-30 alunni. Ma un obiettivo palesemente irrealistico genera frustrazione, indifferenza o arroccamento in difesa». Che fare allora? Porre un taglio alle certificazioni? «Prendiamoci del tempo, almeno questo lo possiamo fare. Prendiamoci tempo e diamo tempo ai ragazzi, parliamoci, incontriamoci, confrontiamoci», risponde Paparella. Dal pubblico invece un dirigente avanza una proposta più radicale, chiedendo l’accompagnamento dell’Università Bicocca: sperimentare delle scuole “pdp-free”, almeno alla primaria. Tempo zero, le mani alzate di presidi interessati sono già tre. Alla faccia di Alice in the wonderland.
Foto del convegno da ufficio stampa Ciai
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