Economia

Valore ed emergenza del soggetto comunitario

“Divieto di assembramento” e “distanziamento sociale”, le due parole chiave di questa emergenza, sono state la molla per sconfinare e sperimentare diverse forme di mutualità e di socialità. In futuro dovremmo istituire una sorta di community index: per capire quanto un soggetto è capace di generare, legarsi e conversare con la comunità. Anche il grande tema dell’impatto sociale trova nella sua definizione l’esplicito riferimento «al valore generato per la comunità»

di Paolo Venturi* e Marco Dotti

Due mesi di lockdown ci hanno messi di fronte a un dato di fatto: in tutte le esperienze che abbiamo incontrato e attraversato emerge un dato comunitario forte. Emerge da due punti di vista: come bisogno della comunità, forza necessaria per affrontare questo periodo, e come desiderio della comunità, risorsa altrettanto necessaria per dare forma al futuro.

Non c’è stato luogo di pratica e di dibattito in cui la comunità non si sia declinata nella doppia chiave del bisogno e del desiderio mostrando alcuni elementi generativi di fondo.

Le due spinte emergenti

Un primo fattore proviene, ancora una volta, dalla situazione attuale: ci siamo fermati a pensare e questa spinta riflessiva ci ha restituito alcune categorie di valore che, nella fretta, avevamo dimenticato. Una voglia di comunità fiorita prevalentemente dentro ad uno spazio fisico, spesso isolato dal resto, ma non per questo non connesso.

“Divieto di Assembramento” e “Distanziamento sociale”, le due parole chiave di questa emergenza, sono state la molla per sconfinare, per sperimentare diverse forme di mutualità e di socialità.

Il divieto degli assembramenti ha generato quella mancanza che ha fatto spazio al desiderio di incontrarci, riunirci, associarci. Nelle adiacenze della vita di ciascuno è nata così una disponibilità alla cooperazione, al mutuo aiuto, alle azioni reciproche e, quindi, a scoprire la dimensione relazionale di luogo. La sua intima matrice comunitaria.

D’altro canto, l’imposizione del cosiddetto “distanziamento sociale” ha favorito la produzione di nuove forme della socialità che si sono registrate nei meccanismi più disparati e, soprattutto, fra persone che non avevano tra loro legami forti. Sono stati proprio i legami deboli, in questo momento, a trovare un coagulo comunitario. Possiamo dunque considerare queste forme di socialità, che si stanno strutturando dal basso, come pezzi di un capitale sociale che si sta ricomponendo, un neo-mutualismo che sta avanzando, passo dopo passo, mostrando la propria capacità di socializzare il rischio condividendo delle soluzioni comuni.

Sono stati i legami deboli, in questo momento, a trovare un coagulo comunitario. Possiamo dunque considerare queste forme di socialità, che si stanno strutturando dal basso, come pezzi di un capitale sociale che si sta ricomponendo, un neo-mutualismo che sta avanzando, passo dopo passo, mostrando la propria capacità di socializzare il rischio condividendo delle soluzioni comuni

Un secondo fattore di spinta è stato la tecnologia ed in particolare l’uso abilitante delle piattaforme digitali. Stimolati dall’iperconnettività, all’interno delle nostre case, la tecnologia ha permesso la nascita di una nuova generazione di prototipi comunitari, piattaforme attivate a volte da istituzioni esistenti, altre dall’intenzionalità di singoli.

Frammenti di comunità che:

a) hanno fatto lievitare e conferito valore a reti già esistenti, a tal punto che ciò che c’era già nella dimensione “off è cresciuto nella dimensione “online”: pensiamo alle tante cooperative che, con altri soggetti non profit (in particolare volontariato), progettazione hanno co-progettato (in remoto) nuove soluzioni per la domiciliarità e la cura degli anziani;

b) sono state occasione di soluzione comuni fra soggetti vicini ma non ancora in relazione: è il caso del progetto di Attiviamo energie positive, dove soggetti diversi si sono messi assieme per costruire una piattaforma e offrire pro bono eventi formativi alle varie realtà del Terzo settore, una piattaforma dove l’elemento vocazionale e motivazionale è stato preponderante;

c) hanno accelerato progetti da anni chiusi nel cassetto: le piattaforme territoriali di welfare aziendale, ad esempio, hanno scoperto che la cassetta degli attrezzi che vendevano alle imprese poteva diventare lo strumento per dialogare con tutto il territorio. Si sono così accorte che quelle piattaforme non sono mai state un mero strumento per far transitare denaro, ma asset di conversazioni e relazioni. Improvvisamente è stato chiaro che mettere la persona al centro non significa mettere i bisogni al centro, ma la relazione che è il più alto dei servizi;

d) hanno fatto emergere economie che, nel mondo del Terzo settore, erano ritenute residuali: la delivery economy, prima era delegata alle grandi piattaforme commerciali, si è rivelata un bisogno primario in chiave di prossimità, tanto per il commercio etico quanto per le cooperative di inserimento lavorativo. E’ maturata perciò l’urgenza e la consapevolezza che le nuove economie sociali e comunitarie hanno bisogno di “coprire l’ultimo miglio” e che devono perciò dotarsi di piattaforme cooperative.

Il nostro tempo è già l’inizio del dopo

Queste dinamiche collocate in un dove profondamente trasformato e attivate in “remoto” stanno facendo nascere una grande quantità di esperienze. Esperienze che sono pezzi di vecchio settore miscelati col nuovo, pezzi di formalità mischiati con pezzi di informalità, pezzi di attivismo e autogestione con pezzi di un modello organizzativo che sta cercando di incorporare sempre più, dentro i propri codici, i codici genetici della comunità.

Questo rimescolamento non è soltanto un effetto o un’esternalità, ma una delle cose più preziose e decisive che questo momento ci consegna. Dobbiamo averne cura e farla crescere.

Se usiamo indicatori sbagliati ci sforzeremo di raggiungere risultati altrettanto sbagliati», dice giustamente Stiglitz. Occorre infatti costruire intorno alla «valutazione del soggetto» una meritorietà comunitaria, riconoscibile e possibilmente misurabile. Non si tratta di costruire metriche quantitative (spesso molto aride rispetto al valore generato) ma definire alcune dimensioni da osservare e valutare per cogliere questa “eccedenza” comunitaria che spesso viene raccontata ma non sempre viene riconosciuta dalle comunità

La fase che viviamo è l’inizio del dopo. Non è solo una fase che apre a nuove comunità, ma anche la possibilità che le vecchie comunità possano continuare a esistere. Spesso si è parlato dei limiti della comunità. Ma per pensare un limite dobbiamo pensare entrambi i lati di questo limite. Proprio segnalando questa doppia valenza del limite, il teologo Stanley Hauerwas ha rimarcato quanto sia importante, affinché una comunità si riveli davvero tale, partire da una considerazione della sua matrice ideale e pragmatica: il bene comune o, nel nostro linguaggio, il neo-mutualismo. Per chiarire di cosa parliamo quando parliamo di bene comune (o neo-mutualismo), Hauerwas scrive:

«Il bene comune non consiste semplicemente nella somma degli interessi individuali o di gruppo, ma è un bene genuinamente comune. Quest’idea implica una concezione dell’uomo in cui l’uomo stesso è visto – non solo descrittivamente, ma prescrittivamente – come essenzialmente sociale. Non siamo individui che pervengono all’ordine sociale per ottenere ciò che possiamo da esso. Piuttosto: dobbiamo essere costituiti socialmente proprio nel nostro essere pienamente individui».

Il tema è passare, dunque, dal progetto, al soggetto comunitario.

Dal progetto al soggetto: verso il community index

Come passare, allora, in questo inizio del dopo, dal progetto al soggetto. Per realizzare questo passaggio bisogna superare la logica che favorisce il soggetto solo perché “fa buone cose”. Che cosa abilita, allora, un’organizzazione a entrare a pieno titolo dentro il mondo che si sta formando e che dobbiamo sostenere, favorire, incitare a crescere? A nostro avviso è il fatto che quel soggetto sia pienamente comunitario.

In futuro, dovremmo istituire una sorta di community index. Per capire quanto un soggetto è capace di generare, legarsi e conversare con la comunità. Anche il grande tema dell’impatto sociale trova nella sua definizione l’esplicito riferimento «al valore generato per la comunità».

«Se usiamo indicatori sbagliati ci sforzeremo di raggiungere risultati altrettanto sbagliati», dice giustamente Stiglitz. Occorre infatti costruire intorno alla «valutazione del soggetto» una meritorietà comunitaria, riconoscibile e possibilmente misurabile. Non si tratta di costruire metriche quantitative (spesso molto aride rispetto al valore generato) ma definire alcune dimensioni da osservare e valutare per cogliere questa “eccedenza” comunitaria che spesso viene raccontata ma non sempre viene riconosciuta dalle comunità.

Quattro sono le dimensioni di questa meritorietà su cui AICCON sta disegnando un indice: la qualità del coinvolgimento della comunità (dimensione intenzionale/relazionale), l’impatto sulla comunità (dimensione trasformativa); il riconoscimento comunitario e la reputazione (dimensione vocazionale e identitaria); intensità e qualità della territorializzazione (dimensione eco-sistemica e inclusiva).

Questo potrebbe essere un cantiere di lavoro per iniziare a leggere le istituzioni in rapporto alla loro meritorietà comunitaria e alla loro imprescindibile dimensione di luogo.

*Direttore di Aiccon

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