E’ iniziato qualche settimana fa il tour globale delle conferenze Ted. Tra gli speakers che hanno accettatro la sfida di illustrare e diffondere le loro idee per cambiare il mondo seguendo le regole del fortunato format (non profit tra l’altro) c’era anche Michael Porter, il teorico dello shared value. Quella del valore condiviso è una formula di successo che si è propoagata a gran velocità. Non solo nel suo alveo originario – il capitalismo alla ricerca di una nuova legittimità – ma anche tra i soggetti non profit. Produrre valore non solo economico e non concentrato nelle mani di pochi soggetti, ma – per l’appunto – condiviso da pluralità di attori è diventato il mantra di un nuovo modello di crescita. E così il carattere “condiviso” sembrava riguardare questo stesso modello intepretativo. La chiave di volta per avviare una competizione virtuosa tra istituzioni diverse.
Il video dell’intervento di Porter non è ancora disponibile. Peccato, perché la cronaca ufficiale del suo intervento riportata nel blog di Ted restituisce un quadro della teoria meno aperto e più diretto nell’affermare che la produzione di valore condiviso è il mezzo attraverso cui il business è, lui sì, in grado di risolvere i problemi sociali e ambientali su vasta scala. Non profit e altre istituzioni possono aspirare, al massimo, a proporre sperimentazioni locali. Ma se si vuole andare oltre percorsi incrementali, dunque tendenzialmente lunghi e conservativi, allora è necessario l’intervento dell’economia e delle imprese for profit. Ed è così che il valore condiviso diventa il meccanismo generativo di un modello di welfare via business basato su risorse a investimento (e non redistribuite via filantropia) e sull’adozione di modelli gestionali di origine aziendale nel gestire la produzione di beni e servizi di protezione sociale. Stesso discorso sul lato ambientale.
E’ da qui che viene il nuovo pensiero economico? Rubo l’espressione a un gruppo internazionale di giovani economisti che recentemente ha fatto tappa al Festival Economia di Trento. Dalla reportistica emerge l’urgenza di riformulare il pensiero economico dalle fondamenta, anche se gli elementi costitutivi non sono ancora chiaramente definiti e si fa leva soprattutto sul carattere generazionale e globale di questa comunità scientifica. E così, nel frattempo, si affermano modelli come quelli di Porter dove – esplicito per esplicito – il sociale viene incorporato nel business e non deriva da una fertilizzazione incrociata.
Per questo occorre percorrere nuove strade. Far incrociare le produzioni scientifiche, come quella che è scaturita dalla recente conferenza internazionale sull’impresa sociale organizzata da Emes a Liegi. Un consesso ricchissimo di contenuti – forse anche troppo – che ormai si può misurare con la conoscenza economica (e non solo) dominante. Poi bisogna fare la fatica di moltiplicare le evidenze empiriche, sia quantitative che qualitative, in merito ai modelli di produzione di valore condiviso. Questa newsletter di Labsus, diper sé, rappresenta una preziosa banca dati di esperienze made in Italy molto interessanti. Infine bisogna guardare al modo in cui il nonprofit è motore di cambiamento all’interno delle imprese for profit. Una sorta di “Nonprofitization of Business” come proposto recentemente nel blog di Stanford Social Innovation Review e che ha il suo fulcro nella valorizzazione del capitale umano e nella mediazione tra le diverse culture economiche e sociali. Due aspetti cruciali per chiunque voglia produrre valore condiviso.
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