Mondo
Vale ancora la pena di impegnarsi in questa società?
Dalla paura per i poveri - il disprezzo che Stefano Zamagni ha chiamato "aporofobia" - alla necessità di nuove pratiche di condivisione e liberazione. Proseguiamo il dibattito con il sociologo Pietro Piro
di Marco Dotti
Sociologo, Pietro Piro ha lavorato come ricercatore e come educatore sociale e culturale in diverse istituzioni per la realizzazione d’interventi di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Il suo libro più recente affronta il tema dello smarrimento di significato e di senso in una società sempre più senza lavoro. Una società che, come ha scritto Stefano Zamagni nell'editoriale di Vita di giugno, sta cadendo vittima di una nuova ossessione: l'aporofobia, la paura del povero. Il riformismo non basta più, scrive Zamagni. Come impegnarsi, allora? Come capire e. al tempo stesso, agire?
Vorrei partire chiedendoti sé dal tuo osservatorio riscontri i segni di quella che Zamagni definisce "aporofobia" una paura mista a disprezzo del povero?
Il mio osservatorio è privilegiato. Ho la possibilità di essere a contatto ogni giorno con i cosiddetti poveri, di ascoltarli, di accompagnarli in un percorso di ricerca dell'autonomia che hanno momentaneamente perduto. La loro presenza, la loro vicinanza, il loro volto ben delineato, l'ascolto dei vissuti – spesso tragici – m'impedisce di pensarli come una "categoria sociale", come un "gruppo". I poveri delle statistiche sono un'astrazione utile alle scienze sociali. Io non conosco i poveri. Conosco delle persone, dei singoli unici e irripetibili che si trovano in una condizione di difficoltà.
Non penso mai a loro nei termini di una categoria. Li penso come persone come me e te, senza nessuna distinzione. Ciò che veramente conta sono le circostanze in cui ci troviamo. Queste persone si trovano in circostanze difficili e cercano di sopravvivere a disastri interiori ed esteriori che hanno segnato la loro vita. Ma se il povero è persona, soggetto di autonomia, portatore di valore come tutti gli altri perché dovrebbe farci così paura?
Forse perché vediamo nelle circostanze in cui si trova lui in questo momento dei possibili scenari che ci riguardano da vicino. Oggi è poi così difficile perdere tutto e ritrovarsi a vivere per strada?
Chiunque viva nella nostra società competitiva sa benissimo che basta poco per ritrovarsi in gravi difficoltà: la perdita del lavoro, la fine di una relazione coniugale, la malattia di un figlio o di un genitore, un incidente. Viviamo nell'angoscia continua di perdere il nostro status sociale perché sappiamo che "costruiamo sulla sabbia".
in che senso costruiamo sulla sabbia?
Come costruiamo oggi la nostra identità? Siamo il nostro lavoro, la nostra nuova auto, la nostra ultima crociera? Siamo quello che consumiamo? Oppure, abbiamo una vita piena e bella lontana dalle liturgie del consumo, della dipendenza, del parossismo dell'eterno godimento? Godiamo del silenzio oppure abbiamo bisogno continuamente di nuovi stimoli? Stando a contatto con chi ha perso tutto mi rendo conto che quando ci è impedito di consumare ci sentiamo perduti. Non sappiamo immaginare la vita fuori dallo schema "Produci, consuma, crepa”. Non si tratta più di scegliere. Dentro questo schema cognitivo si costruisce l'identità del consumatore-consumato, del desiderante-mai-appagato. Credo sia giunto il tempo di comprendere che dentro lo schema della società dell'ipercosumo la vita non può mai trovare riparo dall'angoscia, dalla frustrazione, dalla miseria morale. I poveri hanno il potere – enorme – di renderci presente il limite della menzogna organizzata chiamata società dei consumi.
Sono la presenza viva dell'angoscia che si concretizza in una storia di vita. Noi non abbiamo paura del povero come persona ma del povero come fantasma della menzogna in cui viviamo. Egli ci restituisce immediatamente tutta la stoltezza del mondo cinico e corrotto che abitiamo. Il nostro sistema tecnico produce allo stesso tempo merce scadente ed esclusione sociale, obsolescenza programmata e marginalità, giochi elettronici e prostituzione; farmaci di automedicazione e abbandono scolastico. Si parla sempre di "prodotti esclusivi", di ambienti "esclusivi", di "auto esclusive" per definire la bellezza e unicità di certi prodotti destinati alle élite economiche.
Nessuno si chiede a cosa serve lavorare così tanto sul concetto di "esclusività" legata al desiderio? Credo che i poveri oggi siano l'irriducibile prodotto di scarto di una società dell'esclusione, espulsiva, centrata sulla prestazione e sul godimento. Se non ci fossero i poveri come farebbero i ricchi a frequentare luoghi "esclusivi"? È necessario escludere qualcuno per sentirsi parte di un gruppo di privilegio e più aumentano gli esclusi e più i gruppi di privilegio si sentono simili agli dei.
In base a quello che mi racconti, i poveri sono una necessità della megamacchina sociale. È un analisi che si discosta da una visione paternalista della povertà e che ci invita a ragionare sui bisogni veri e su quelli indotti. Dobbiamo lavorare su una nuova etica dei bisogni?
Ritengo che la questione dei bisogni sia fondamentale. Di cosa abbiamo veramente bisogno per rendere la vita piena e degna di essere vissuta? Credo che se domandassimo ad ogni abitante della Terra di fare un elenco dei bisogni che ritiene fondamentali non troveremmo un accordo in breve tempo. Perché i bisogni dipendono dalle circostanze in cui ci troviamo e cambiano continuamente in base ai progetti e alle idee che ci facciamo di noi stessi e del mondo. Noi viviamo in una società paradossale. In Italia vivono 1,2 milioni di bambini e bambine in povertà assoluta. Allo stesso tempo, il mercato dei prodotti dedicati ai bambini aumenta sempre di più il suo fatturato anno dopo anno. Abbiamo trasformato i bambini in consumatori precocissimi bombardandoli di pubblicità. Oggi s'inizia a desiderare i prodotti del commercio già dai primi anni di vita. Dire che i bisogni sono indotti non basta più. Sappiamo tutti che desideriamo il superfluo, lo spreco, il lusso. L'immaginario è stato colonizzato da tempo e una distinzione netta tra bisogni fondamentali e superflui non è facile da farsi. Quando lavoro su percorsi di autonomia con persone ai margini della società mi rendo conto che anche se vivono in circostanze estreme continuano a desiderare l'impossibile, il lontano, l'inafferrabile e facendo così non riescono a cogliere le possibilità offerte dalla prossimità, da ciò che è concretamente realizzabile. Per assurdo, più aumenta la difficoltà e più il desiderio dell'irrealizzabile diventa un ossessione.
Oggi abbiamo bisogno di educarci all'autoanalisi dei bisogni. Senza questa attività di critica e autocritica continueremo sempre a vagare come i ciechi guidati da altri ciechi (che però in termini di profitto ci vedono benissimo).
Per lavorare con chi si trova in condizione di povertà è necessario uscire da una logica paternalistica e pietistica e comprendere se esiste un potenziale di liberazione che possiamo far fruttare. La società dell'iperconsumo distrugge le energie di autonomia, di ricerca, di azione, di valutazione, di analisi. Mortifica le sensibilità individuali e le ipotesi di autonomia. Fa crescere smisuratamente le pretese di beni di consumo e riduce al minimo la speranza nelle proprie capacità e in quella degli altri.
Se non lavoriamo tutti insieme a ridefinire l'etica dei bisogni non potremo avviare i processi di cui parla Zamagni e passare dall’economia politica all’economia civile. Un economia civile impiantata dall'alto in un sistema di bisogni drogato credo sia impossibile. Dobbiamo lavorare nella direzione di stimolare processi di esplorazione collettiva che prende, come punto di partenza, l’esperienza e l’intuizione degli individui così come ci ha insegnato Danilo Dolci. Occorre meno teoria del cambiamento sociale e più prassi di autoanalisi popolare in cui gli ultimi sono coinvolti in prima persona.
Oggi bisogna essere isolati o attentamente e accuratamente emarginati, se vogliamo che i nostri figli giochino in un ambiente dove si ascolti la gente comune invece dei divi, degli oratori e degli insegnanti. In qualsiasi posto si può osservare il rapido sviluppo di una disciplinata acquiescenza che caratterizza l'uditorio, i consumatori, gli utenti. La standardizzazione dell'atto umano si diffonde. E’ chiaro quindi che il problema di fronte al quale si trova la maggior parte delle comunità al mondo è esattamente lo stesso: rimarremo numeri di una folla condizionata che va verso una dipendenza crescente (con selvagge lotte per dividerci le droghe che alimentano il nostro stile di vita) se non troveremo il coraggio di star fermi e guardarci attorno, alla ricerca di qualcosa che sia diverso da frettolose soluzioni precostituite
Ivan Illich
Non mi pare che la politica in Italia si muova in questa direzione non credi?
Oggi più che mai, la politica basata sul consenso sta agevolando i processi di disumanizzazione giocando pericolosamente un gioco al ribasso con gli istinti primordiali di aggressione e di aggregazione in base alla paura. Possiamo serenamente parlare di una psicopolitica della paura. Funziona? Certamente e forse sarà la politica del futuro, sempre più raffinata e sempre più cosciente del potere dei media sulle coscienze deboli degli individui impauriti. Non ho formule per contrapporre a questa deriva una forma alternativa. Credo però che se non investiamo molto più tempo nella cura dei processi di partecipazione, nell'ascolto dei bisogni e nella loro analisi collettiva coinvolgendo le "persone di buona volontà" rischiamo di non cogliere il senso profondo del cambiamento in cui siamo coinvolti. L'ecologia profonda è l'unica strada percorribile in un mondo che divora se stesso, incurante dei suoi limiti. Ci lamentiamo molto della qualità della nostra classe dirigente ma sembra quasi che provenga da una società diversa nella quale abitiamo tutti. Se nostri rapporti quotidiani sono segnati dalla violenza, dalla superficialità, dalla noia, dal soffocato dolore di vivere in un ambiente ormai devastato, come possiamo pensare che i "rapporti politici" non riflettano direttamente questa condizione diffusa. Se la classe politica è lo specchio del Paese occorrerà cambiare il nostro piccolo sistema di relazioni per permettere allo specchio di riflettere immagini rassicuranti invece che mostri agitatori di rosari.
In questo momento, a livello planetario è in atto una profonda rivoluzione antropologica che getterà le basi per l'uomo abitatore del futuro. Un uomo con valori totalmente differenti dai nostri.
Planetario come sperava Ernesto Balducci?
Oppure, un super-uomo capace di accedere finalmente all'immortalità fisica? Non faccio il futurologo di professione. Mi attengo ai volti che incontro cercando di rimanere lucido e presente a me stesso. Di certo posso dire che ci troviamo in quella condizione dolorosa che Gramsci ha saputo descrivere perfettamente: Il vecchio mondo sta morendo. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.
Vale ancora la pena di impegnarsi socialmente in una società come questa?
Prima d'impegnarsi occorre sapere disimpegnarsi. Occorre sciogliere i legami. Quelli più grossolani e quelli più sottili. La nostra società crea dipendenza dal consumo e riduce ogni pretesa di autonomia. Se non impariamo prima di tutto come "pagare il debito" con una società come questa, l'impegno potrebbe rischia rafforzarla ancora di più in una eterogenesi dei fini che ci rende ancora più impotenti. Solo quando impareremo a fare senza della maggior parte delle "comodità" che ci stordiscono potremo dare avvio a una nuova stagione di vero impegno. Abbiamo bisogno di una ascetica laica in grado di condurci alla liberazione.
Tanti anni fa Ivan Illich in un convegno scriveva: "Oggi bisogna essere isolati o attentamente e accuratamente emarginati, se vogliamo che i nostri figli giochino in un ambiente dove si ascolti la gente comune invece dei divi, degli oratori e degli insegnanti. In qualsiasi posto si può osservare il rapido sviluppo di una disciplinata acquiescenza che caratterizza l'uditorio, i consumatori, gli utenti. La standardizzazione dell'atto umano si diffonde. E’ chiaro quindi che il problema di fronte al quale si trova la maggior parte delle comunità al mondo è esattamente lo stesso: rimarremo numeri di una folla condizionata che va verso una dipendenza crescente (con selvagge lotte per dividerci le droghe che alimentano il nostro stile di vita) se non troveremo il coraggio di star fermi e guardarci attorno, alla ricerca di qualcosa che sia diverso da frettolose soluzioni precostituite".
Ecco, io non ho nessuna frettolosa ricetta da gettare in pasto ai "professionisti" della povertà. Sono certo però che i poveri non smetteranno mai di darci fastidio, di suscitare in noi angoscia e paura. Ed è bene che sia così. I poveri non ci lasceranno dormire scriveva il missionario Alex Zanotelli. Aveva ragione. Non ci fanno dormire il confortevole e levigato sonno di coscienza in cui vorremmo sprofondare.
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