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«Usiamo le parole per abbattere muri, non per alimentare odio»

Regina Catrambone, imprenditrice che ha fondato l'ong Moas, attiva da tre anni nel Mar Mediterraneo in coordinamento con la Guardia costiera per salvare persone in pericolo nel viaggio migratorio verso l'Europa, scrive a Vita.it una riflessione puntuale alla luce degli ultimi tragici fatti di cronaca

di Regina Catrambone

Apprendo dalla stampa e dai social media che fra il 22 e il 23 Marzo sarebbero avvenuti due naufragi che avrebbero causato circa 300 vittime. Il numero esatto non lo sapremo mai, finora si hanno solo delle stime approssimative perché di fatto non si sapevanemmeno che queste persone si trovassero in mare in pericolo. Abbiamo saputo della loro esistenza quando l'associazione ProActiva Open Arms ha recuperato dalle acque 5 cadaveri vicino a due imbarcazioni capovolte che, stando alla Guardia Costiera, non avrebbero nemmeno chiesto aiuto. Il Mediterraneo, da ponte fra culture e culla di civiltà diverse, sta diventando una enorme fossa comune dove si muore in silenzio e lontano dagli occhi di chi cerca di gettare ombre sulla società civile impegnata in missioni di ricerca e soccorso in mare.

Purtroppo nemmeno sulla terraferma la situazione sembra migliore. Un giovane nigeriano di 25 anni da mercoledì 22 Marzo lotta fra la vita e la morte mentre si trova nel reparto di terapia intensiva all'ospedale Infermi di Rimini. Non si conosce molto dell'identità di questo giovane ragazzo arrivato nel settembre 2016 in Sicilia e da lì trasferito a Rimini. Sappiamo che si chiama Emmanuel Nnumani ma non se ha una famiglia che lo aspetta in Nigeria o che vive in Italia. Non conosciamo nessuno dei suoi sogni, dei suoi progetti e dei suoi desideri. Sappiamo solo che è stato violentemente aggredito e ridotto in fin di vita da un uomo che, prima di scagliarsi contro di lui, gli ha rivolto degli insulti razzisti.

Proprio il razzismo sembra essere il movente di questo gravissimo episodio che deve far riflettere tutti noi come società civile e le istituzioni ad ogni livello. Sono tristemente in aumento i casi di aggressioni -fisiche e verbali- ai danni di persone che dall'aspetto non sembrano italiane e il colore della pelle sembra essere divenuto un elemento discriminatorio sempre più accentuato.

Nel luglio dell'anno scorso un altro ragazzo nigeriano di 36 anni, Emmanuel Chidi Namdi, fu ucciso per aver tentato di proteggere la sua compagna da insulti razzisti pronunciati proprio da chi a breve lo avrebbe colpito a morte. Il 15 Marzo il corpo senza vita di un ragazzo 19enne somalo, Maslax Moxamed, è stato trovato impiccato nel parco vicino al centro di accoglienza straordinaria a Pomezia dove era stato alloggiato dopo essere stato rispedito dal Belgio all'Italia. Maslax era un "dublinante":arrivato in Italia nell'agosto 2016, aveva raggiunto sua sorella che viveva in Belgio,ma i provvedimenti del regolamento di Dublino lo hanno costretto a interrompere il tentativo di ricongiungersi con la sorella. Il suicidio di Maslax mi riporta indietro di qualche mese quando a Venezia un altro giovane richiedente asilo, Pateh del Gambia, si è tolto la vita lanciandosi nelle gelide acque della laguna sotto lo sguardo indifferente dei molti turisti.

Al di là dei singoli e drammatici episodi rimane il fatto che siamo sempre più abituati a una retorica aggressiva fatta di insulti e violenza verbale che sta avvelenando per intero la nostra società. Siamo abituati all'indifferenza e alla distanza verso gli altri. Dalla politica ad ognialtro ambito sempre più spesso sentiamo utilizzare termini denigratori nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo; e sentiamo crescere le accuse nei confronti di chi cerca di aiutarli. Chi sbarca sulle nostre coste diventa un numero privo di storia e identità cui viene sottratta ogni dignità e che dovrebbe accettare qualsiasi condizione di vita o lavoro solo perché ha potuto salvarsi. Ci dimentichiamo che si tratta di persone come noi.

Emmanuel Nnumani magari avrà una madre in Nigeria che non sa dove sia suo figlio. Emmanuel Chidi Namdi aveva una compagna con cui cercava di ricostruire una vita al riparo dalla violenza di Boko Haram. Maslax Moxamed era un ragazzo in tutto uguale ai nostri figli che però ha avuto la sfortuna di essere nato in un paese incapace di offrirgli un futuro dignitoso. Pateh aveva affrontato mille pericoli per poi togliersi la vita saltando nella laguna. Storie diverse di vite interrotte o sospese in bilico fra la vita e la morte accomunate dal fatto che l'Europa, dove erano arrivati cercando pace e sicurezza, si è rivelata totalmente impreparata ad accoglierli.

Chiunque sbarchi sulle nostre coste dopo viaggi terribili porta con sé un enorme carico di dolore e di speranza che non dovremmo ignorare, ma che anzi dovremmo valorizzare. Per costruire una società migliore, bisogna essere in grado di accogliere concretamente chi arriva nel nostro paese senza nulla se non una fortissima voglia di riscatto. Dobbiamo creare le condizioni giuridiche e sociali per farli diventare parte attiva della nostra comunità e non marginalizzarli. Non si può accettare il dilagare di questa violenza verbale che finisce per contagiare tutto e trasformarsi in violenza fisica. Le parole possono ferire quanto le armi e la loro pericolosità si misura in questa escalation di violenza contro i migranti e i richiedenti asilo che rappresentano una parte estremamente fragile della nostra società.

Usiamo le parole e le azioni per costruire ponti, per abbattere muri e pregiudizi, per creare una comunità accogliente dove nessuno debba sentirsi escluso. Non usiamole per dividere e alimentare un odio incontrollabile. Il mio più grande augurio al momento è che Emmanuel Nnumani si riprenda il prima possibile, guarisca e trovi in Italia la pace che il suo paese di origine non ha saputo dargli. Mi auguro infine che, alla luce di questo terribile evento, la protezione per motivi umanitari concessagli segni l'inizio di un percorso di autentica integrazione nel nostro paese. Come auspicato dal Comune di Rimini, non lasciamolo solo.

Nota della redazione: a questo link il nuovo documentario "Fishers of men", in cui viene descritta nel dettaglio l'attività in mare dell'ong Moas

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