Politica
Uscire dall’emergenza ripensando a un sistema fiscale più equo
È arrivato il tempo di dire che non si ricostruisce uno Stato e nemmeno si ricostruirà una diversa Unione Europea senza una riedificazione di una autentica base fiscale fondata su una reale equità, riaffermando con forza il principio della progressività, istituendo una tassazione equilibrata sui grandi patrimoni e sulle rendite
Dobbiamo iniziare ora, anche se siamo stremati dalle emergenze e concentrati sulla tenuta dei servizi sanitari e sociali, a pensare al dopo. Ai tanti “dopo” su cui dovremo concentrare gli sforzi di una ricostruzione sociale, economica e civile che richiederà tempo ed energie, ma soprattutto risorse ed idee.
Tra queste ricostruzioni del “dopo emergenza” riteniamo che uno dei temi fondamentali riguardi la riedificazione di un sistema di tassazione equo, per il quale costruire anche una onesta e veritiera narrazione pubblica e politica, oltre gli storytelling e la ammorbante retorica sulle tasse dipinte come principale problema politico. Prima che i riflettori e le telecamere costantemente puntate sugli ospedali si spengano, prima che si concludano le conferenze stampa quotidiane con la conta dei morti, prima che si attenui la retorica celebrazione degli eroici medici ed infermieri e dei valorosi servitori dello Stato che sono stati in prima linea nell’emergenza occorre ripetere fino all’ossessione che questo sforzo enorme è stato sostenuto da risorse pubbliche che non provengono da altra fonte se non dalle tasse di quella parte di italiani che le hanno sempre pagate.
Occorre ricordare che negli ultimi 10 anni sono stati operati tagli alla sanità pubblica per 37 miliardi. Che abbiamo una spesa sanitaria (pubblica) che assorbe 8,9% del PIL mentre per le pensioni ne impieghiamo il 15,80% perché abbiamo investito sull’incasso immediato dei voti che arrivano dal facile consenso delle quote 100 (indifferenziate) e dei redditi di cittadinanza. Pretendendo al tempo stesso di raccontare favole su tasse piatte e istigando gli italiani a ribellarsi al fisco, sapendo bene che quella parte di imprese e di lavoratori su cui pesa un carico fiscale elevato è costituita da chi non potrà mai ribellarsi al fisco.
Nel frattempo abbiamo ridotto le aliquote, eliminando quelle più elevate per redditi alti. Abbiamo abolito le tasse di successione, anche per i grandi patrimoni. Abbiamo mantenuto una tassazione irrisoria sulle speculazioni finanziarie, sui capital gain, sulle operazioni di pagamento con stock option, sui riacquisti speculativi di azioni effettuati col solo obiettivo di incrementare artificialmente il valore delle azioni stesse. Abbiamo tollerato che in una parte importante del Paese sopravvivesse un sistema economico totalmente nascosto, fingendo di essere afflitti da tassi di disoccupazione superiori al 50%, senza mai riconoscere che questi dati non certificavano solo la disoccupazione ma più realisticamente un’economia sommersa e una diffusione di lavoro nero totalmente fuori controllo.
Per questo è arrivato il tempo di dire che non si ricostruisce uno Stato e nemmeno si ricostruirà una diversa Unione Europea senza una riedificazione di una autentica base fiscale fondata su una reale equità, riaffermando con forza il principio della progressività, istituendo una tassazione equilibrata sui grandi patrimoni e sulle rendite. Nel corso degli ultimi 30 anni in tutti i paesi europei si è assistito ad un graduale ma continuo spostamento della tassazione su lavoro e reddito (di persone e imprese), mentre si è alleggerita la tassazione sulla ricchezza e sulle rendite.
Questo dovrebbe essere ricordato ogni volta che si celebra l’eroismo degli operatori della sanità e dei servizi di cura, costretti a diventare eroi loro malgrado, anche perché abbiamo depredato il sistema sanitario di risorse, che sono essenzialmente pubbliche, anche nella Lombardia che celebra il sistema aperto alla libera scelta tra pubblico e privato, dove in ogni caso anche le strutture private erogano le prestazioni sulla base di pagamenti che arrivano dal Fondo Sanitario Nazionale. Nell’emergenza abbiamo visto anche importanti gesti di generosità che si sono manifestati con grandi e piccole donazioni, con le campagne di raccolta fondi o le singole munificenze di persone dotate di importanti ricchezze. Sono stati gesti generosi e manifestano una solidarietà, verso cui va tributata gratitudine e riconoscenza. Tuttavia, non possiamo pensare che un sistema sanitario né tanto meno un sistema di protezione sociale si possa reggere sulle donazioni. Donazioni che generalmente si muovono sull’onda dell’emergenza, si attivano quando l’impatto emotivo è potente, si orientano ad obiettivi di risposta immediati. Sono stati fondamentali e lo sono tutt’ora per gestire l’emergenza. Ma basterebbe analizzare come, anche in queste settimane le principali iniziative sono state rivolte all’emergenza, ma poco o nulla si sono curate delle parti meno visibili di tenuta del sistema sociale e sanitario. E questo si è visto sia per le donazioni di risorse, sia per gli approvvigionamenti tecnici o per le famose protezioni individuali, diventate quasi inaccessibili per gli operatori sociali, anch’essi esposti a rischi importanti.
Un sistema sanitario solido, capace di rivalutare la prevenzione e la medicina di territorio, che non sia esclusivamente concentrato sugli ospedali, concepiti come centrali di produzione di prestazioni sanitarie, mentre le cure diffuse e domiciliari continuano ad essere ancillari. Per non parlare della medicina a scarso valore economico aggiunto: psichiatria, neuropsichiatria infantile, prevenzione, trattamento delle dipendenze. Tutte aree che richiedono continuità di trattamento e che non solo sono poco attrattive per i produttori privati, ma raramente suscitano le emozioni che muovono i grandi donatori. Per questo se un sistema di produzione di prestazioni sanitarie può anche rispondere a logiche di mercato, può finanziarsi con risorse private e suscitare donazioni, questo non funziona per i sistemi che si propongano di promuovere la salute come bene pubblico.
Finita l’emergenza, spenti i riflettori, il rischio è che ci si dimentichi in fretta di quanto un sistema per la salute e la protezione sociale debba necessariamente reggersi sulle risorse pubbliche finanziate col contributo delle tasse di tutti, secondo le loro possibilità in modo equo e progressivo. Fra qualche mese ci sarà un’economia da ricostruire e un debito pubblico che sarà ancora più imponente e ci saranno solo due strade da percorrere: razionalizzare la spesa e fare nuovi tagli o ridistribuire diversamente il carico fiscale. Certamente ci sono molte voci della spesa pubblica che si possono rimodulare, ma non pensiamo che ulteriori tagli della spesa per sanità e welfare, si possano compensare con la finanza d’impatto, le donazioni, la filantropia finanziaria. Servirà una riforma fiscale vera, che non sia propagandata al grido di “tagliare le tasse”, pronunciato in ogni intervista, nelle dirette sui social network, in ogni gazzarra televisiva da politici di diversi schieramenti, spesso, gli stessi che in questi giorni proclamano con la medesima convinzione la necessità di interventi economici straordinari.Per questo bisognerebbe iniziare a promuovere una campagna di informazione di proposte che mettano al centro una diversa descrizione del significato dell’equità fiscale e sul ruolo delle tasse nella edificazione di una civiltà. Non si può essere patrioti senza essere anche dei corretti contribuenti. Non si può sorreggere un sistema fiscale equo senza una revisione della tassazione della ricchezza, della rendita e delle transizioni finanziarie.
La tassa patrimoniale, agitata come spauracchio e dipinta come madre di tutti i mali fiscali, dovrebbe al contrario essere rinominata come la tassa della responsabilità. Pagare la patrimoniale andrebbe raccontato come esercizio di “signoria” sulla propria ricchezza, un esercizio da svolgere con equità, contribuendo ad assicurare allo Stato sul cui territorio si posseggono grandi patrimoni o realizzano le rendite degli investimenti quelle risorse che servono a garantire protezione sociale e sanitaria e progresso economico per tutti. Che servono cioè a garantire quella giustizia e coesione sociale che sorreggono gli stessi patrimoni e le stesse rendite.
Interessante a questo proposito la proposta del presidente della Fondazione Italia sociale, Enzo Manes, che ha scritto: “Occorre contributo di solidarietà a valere sulla ricchezza privata. In Italia, per avere un ordine di grandezza, il private banking e il wealth management hanno in gestione 912 miliardi di euro per conto di circa un milione di clienti facoltosi. Se dai patrimoni superiori al milione di euro fosse prelevato l’1 per mille una tantum si potrebbe creare un fondo di dimensioni sufficienti ad un’azione di impatto significativo. Questa “donazione obbligatoria” (da accompagnare con uno sgravio fiscale) – non cambierebbe certo in peggio la vita di chi possedendo un patrimonio finanziario di un milione di euro si priverebbe di mille euro per dare una mano a tenere in piedi il non profit italiano. Sarebbe un’azione coraggiosa e lungimirante. Un atto civico per capitalizzare, prolungandone gli effetti, il senso di solidarietà che avvertiamo in questi giorni”.
Sono proposte che possono apparire provocatorie e scandalose, temo che pochi politici vorranno raccoglierle. Ma proprio per questo le voglio proporre ora, prima che si spengano i riflettori sull’emergenza così da poter dire a chiunque ancora pronunci frasi che celebrano gli eroi che si sono sacrificati durante l’emergenza, che per ciascuno di quegli eroi probabilmente c’è un traditore che evadendo le tasse, lavorando o facendo lavorare qualcuno in nero, illudendo gli italiani che si possono pagare meno tasse e ricevere più servizi ha contribuito ad esporre tutto il Paese a questa grande catastrofe.
*Presidente Cecop-Cicopa Europa
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