Non profit

Usa e Arabia Saudita alla guerra degli aiuti

Washington punta sulle infrastrutture, Riad sugli interventi delle piccole organizzazioni islamiche. Due strategie, un unico obiettivo: l'influenza su Islamabad

di Martino Pillitteri

Lo dicono i numeri: la ricostruzione del Pakistan è quasi un affare a due tra Stati Uniti e Arabia Saudita. I 150 millioni di dollari arrivati da Washington (pari a circa il 25% degli aiuti arrivati da tutto il mondo) e i 107 da Riad, sono briciole se paragonati ai 7,1miliardi (stime di uno studio congiunto tra Ball University e University of Tennesse) necessari per la ricostruzione del Pakistan, ma rappresentano anche un investimento sull’area medio-orientale che nessun altro player internazionale ha accettato di mettere sul tappeto.
Diverse però le strategie dei due competitor della solidarietà. Gli americani stanno privilegiando investimenti infrastrutturali come la realizzazione di strade e ospedali. I sauditi invece in Pakistan hanno puntato sull’invio di beni di prima necessità come coperte, letti, lenzuola, biancheria, medicine, cibo, tende. Una campagna di aiuti che il New York Times – per quanto riguarda la Casa Bianca – ha già definitito gattopardesca: i soldi che si stanno investendo per la ricostruzione del Pakistan, scrive il giornale, servono solo per ricreare un Pakistan com’era prima che i monsoni lo distruggessero. Stati Uniti e Arabia Saudita hanno comunque un obiettivo comune: la ricerca del consenso. Che in un modo o nell’altro prima o poi arriva.
Come fa notare questo mese la prestigiosa rivista Foreign Policy, il miliardo di dollari che l’amministrazione Bush ha stanziato dopo lo tsunami, da un lato ha svuotato le casse di Usaid, ma dall’altro ha aumentato il rating di simpatia nei confronti degli Usa. In Indonesia il tasso di gradimento verso gli americani è arrivato a toccare il 38%. Prima dello tsunami era fermo al 19. Il Pakistan rimane comunque un osso duro. Il Congresso ha approvato un pacchetto di 7,5 miliardi di dollari da investire nell’arco di cinque anni nello sviluppo economico, energetico, sociale, politico del Paese. L’investimento pare però non aver prodotto almeno fino ad oggi alcun indebolimento delle cellule pakistane di al-Qaeda.
I sauditi dal canto loro hanno già indirizzato i fondi tra le organizzazioni presenti nelle zone tribali. Riad ha sempre avuto carta bianca dentro il Pakistan al punto che Islamabad non si è mai azzardata a chiudere nemmeno le organizzazioni saudite che hanno promosso il fanatismo religioso di stampo wahabita. Un’offensiva, questa, che non è passata inosservata al di là dell’Atlantico. Secondo la rivista The Atlantic Sentinel, gli estremisti pakistani stanno cercando di approfittare della tragedia per portare il consenso dalla loro parte. Le islamic charities locali sono più efficaci e rapide delle ong internazionali e di quelle pakistane nel distribuire cibo e beni di prima necessità. «Sono efficaci», ha scritto il politologo Nasr Vali, «perché sono vicini alle persone e si muovono su una corsia preferenziale, bypassando la burocrazia statale e le procedure legate alla trasparenza». Non solo, «il linguaggio religioso è in grado di conquistare la fiducia della popolazione, di mobilitare i volontari, di raccogliere donazioni e di comunicare indipendenza da un governo che i pakistani giudicano corrotto». Un esempio? L’organizzazione Falah-e-Insayat (il braccio filantropico di Lashkar-e-Taiba, la sigla bandita dall’Onu perché ritenuta responsabile del massacro di Mumbai in India nel 2008 dove persero la vita 166 persone) ha già messo in piedi tre ospedali mobili, 34 depositi e 11 ambulanze. Intanto i rappresentanti dell’esercito pakistano, come riporta The Telegraph, sostengono che Falah-e- Insayat e le altre charities islamiche con gli aiuti distribuiscono anche ideologia ed usano la catastrofe per aumentare la loro influenza.


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