Politica
Urne vuote, le responsabilità del sociale
L'editoriale che apre il numero di VITA magazine di questo mese a firma del coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità: «Noi cittadini attivi e operatori sociali siamo vittime di unna sorta di deriva tecnico-amministrativa-governista in cui con l’andar del tempo abbiamo messo di lato l’attenzione sul senso politico e culturale del nostro lavoro». Come cambiare direzione?
L'astensionismo registrato nelle elezioni regionali di Lombardia e Lazio trova certamente le sue radici nella separazione che la “politica” ha alimentato intorno a sé, ma non può essere letto solo utilizzando questa chiave. I suoi numeri, oramai vera e propria emergenza democratica e civile, mi pare costringano tutte e tutti noi a una riflessione seria. Non solo come cittadini e cittadine ma come soci, attivisti, operatori, dirigenti delle organizzazioni del civismo attivo, dell’associazionismo e del volontariato, dell’impresa sociale e delle loro reti o soggetti di coordinamento e rappresentanza. Soprattutto se pensiamo al nostro lavoro come ambito di cambiamento e non di contenimento; come insieme di azioni e interventi tesi sia all’abilitazione, tutela e promozione di diritti, sia a restituire “capacità di aspirare” a persone e comunità così lacerate e dense di disuguaglianze e povertà da fare percepire come impossibile anche la sola facoltà di immaginare un futuro differente, più giusto e dignitoso.
E, ancora, ci riguarda perché molto probabilmente tra quelli che sono rimasti a casa e anche tra quelli che hanno deciso di votare per le forze che esprimono posizioni radicalmente alternative all’idea di mondo e di giustizia sociale e ambientale che portiamo avanti ci sono molte delle persone con cui tutti i giorni proviamo a lavorare e che sono le prime vittime di tali politiche. In altre parole, se ormai riusciamo a comunicare il valore umano e sociale del nostro lavoro, non riusciamo ancora con la stessa chiarezza ad affermare il senso profondo e la prospettiva per cui quel lavoro serve per prevenire e arginare le dinamiche sociali, economiche e culturali in cui si alimentano povertà, disuguaglianze, cattive economie.
Forse non ci riusciamo perché oramai da tempo molte e molti di noi hanno scelto di stare sui tecnicismi e le operatività o di giocare la rappresentanza sul solo piano sindacale e dell’advocacy. Una sorta di deriva tecnico-amministrativa-governista in cui con l’andar del tempo abbiamo messo di lato l’attenzione sul senso politico e culturale del nostro lavoro. Ci siamo accontentati del fare (spesso dell’ottimo fare) ragionando poco su quello che stavamo facendo. Un deficit di riflessività che ci ha resi più fragili di fronte ai processi di disinvestimento pubblico, economico, culturale e politico nei campi del welfare e dei diritti, facendoci in troppi casi perdere anima e visione esponendoci al rischio di colludere con scelte politiche errate e di essere interpretati e di interpretarci come meri gestori di politiche altrui. Insomma, mai come ora abbiamo bisogno di un doppio salto di qualità per preservare e innovare il nostro lavoro.
Il primo passo va teso a rendere più denso e a mettere a sistema il nostro fare insieme. Abbiamo bisogno di investire per costruire maggior connessione tra tutti noi e tra le nostre reti, sapendo che per farlo davvero occorre considerare la fatica di mettere a repentaglio le nostre certezze e le nostre abitudini e di essere disponibili a considerare i nostri assunti come “verità penultime”, con la consapevolezza che mai come oggi il fare sistema è essenziale e indispensabile.
Il secondo passaggio necessario riguarda il ritrovare il gusto dello svelamento e della denuncia, per aprire PER CONTINUARE A LEGGERE CLICCA QUI
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