Mondo
Un’utopia tutta da conquistare
Parla il direttore generale di Save the Children, Valerio Neri
di Redazione

Nei Paesi poveri i bambini muoiono ancora di fame
o di dissenteria, in molti
di quelli ricchi diritti come l’ascolto o l’educazione restano sulla carta
All’avvicinarsi del ventesimo anniversario della Convenzione dei diritti dell’infanzia occorre riflettere su quale sia oggi il suo significato.
L’occasione per un’organizzazione come Save the Children è di particolare importanza perché quest’anno cade il 90esimo della sua fondazione ad opera delle sorelle Eglantyne e Dorothy Jebb.
Nel 1923, Eglantyne Jebb scrive la prima Carta dei diritti del bambino, che sarà adottata dalla Lega delle Nazioni prima e dalle Nazioni Unite poi, e sulla quale si basa la Convenzione Onu sui diritti del bambino del 1989. Per questo la sento figlia del pensiero della fondatrice di Save the Children.
La Convenzione dei diritti dell’infanzia si sta rivelando una Carta fortemente utopica, perché dà gli obiettivi a cui l’umanità deve tendere, ma che in gran parte sono ancora da realizzare. Non solo nei Paesi poveri.
Se in questi si devono ancora perseguire misure per evitare che i bambini muoiano di fame o di dissenteria, nei Paesi ricchi diritti come l’ascolto o all’educazione non sono esercitati ovunque.
In Occidente si può dire che si odono i bambini, ma nella realtà dei fatti nessuno li ascolta.
C’è questo scollamento con i principi della Convenzione e quello che concretamente viene perseguito.
Quando nove milioni di bambini muoiono ogni anno perché non si riconosce il diritto alla vita non è un problema di uno Stato, di una famiglia, è un problema dell’umanità, perché è l’uomo come concetto che viene meno.
Lo stesso vale per i 40 milioni di bambini destinati all’analfabetismo. Ecco perché dico che la Convenzione dei diritti dell’infanzia è ancora utopica e al di là delle belle parole e delle ipocrisie di tanti governi del mondo, è ancora da capire in tutto il suo intimo significato.
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