Volontariato

Uno Stato su due pratica la tortura

Lo rivela il rapporto annuale pubblicato dall’Action des chrétiens pour l’abolition de la torture

di Joshua Massarenti

Simulazione di esecuzione in Bangladesh. Supplizio della crocifissione in Eritrea. Uso delle scosse elettriche in Guinea equatoriale. Pratica dell’asfissia in Russia. Sono solo alcune delle sevizie elencate nel primo rapporto annuale sulla tortura nel mondo pubblicato dall’Action des chrétiens pour l’abolition de la torture. Secondo Acat “oltre la metà degli Stati membri delle Nazioni Unite ricorrono alla tortura”.

La maggior parte delle testimonianze raccolte dall’organizzazione non governativa francese provengono dall’Africa. “La tortura è profondamente radicata nella cultura delle forze di sicurezza che agiscono in un clima di totale impunità” sottolinea il rapporto.

Come in Ciad, l’imprecisione dei testi legislativi e l’assenza di criminalizzazione della tortura consentono ai poliziotti di abusare dei loro poteri senza dover temere eventuali processi giudiziari.

“I regimi dittatoriali come la Mauritania, il Sudan, lo Zimbabwe, l’Etiopia e la Repubblica democratica del Congo hanno fatto della tortura un vero proprio strumento d’inchiesta e di repressione” sostiene l’Acat.

Sulla stessa scia, le forze dell’ordine sudamericane fanno un uso sproporzionato della violenza per garantire la sicurezza dei cittadini. I casi di sevizie perpetrate dalla polizia contro giovani brasiliani delle favelas non si contano più.

Ma nemmeno l’Occidente può sentirsi al riparo di un fenomeno che dilaga in tutto il pianeta. Sui 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, 28 sono stati condannati dalla Corte europea dei diritti umani per violenze o atti di brutalità commessi dalla polizia.

Negli Stati Uniti, l’arrivo di Barack Obama alla casa Bianca ha sì posto fine alle derive dell’amministrazione Bush, “ma Guantanamo non ha mai chiuso” fa notare François Walter, il presidente di Acat France.

Ciò che accomuna gli Stati nel ricorrere alla tortura sono le vittime. Sempre le stesse. Ovvero militanti dei diritti umani, giornalisti, sindacalisti, minoranze etniche o religiose, migranti, detenuti, soldati e disertori.

La stessa cosa vale per gli obiettivi perseguiti dai torturatori: raccogliere informazioni, costringere le vittime a rilasciare confessioni o incutere la paura degli oppositori.


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