Welfare

Uno, dieci, centomila rider. Autonomi, ma schiavi

«Se sei un rider, il tuo capo è un algoritmo», commenta Rosita Rijtano, giornalista e autrice di "Insubordinati", un libro-inchiesta sui rider che svela quello che succede prima che il sushi arrivi a casa. « Da come sarà regolata o non regolata quest’attività dipende il domani di tutti noi. Una questione che non riguarda solo i rider, anzi». Nel frattempo l'algoritmo delle app resta segreto. Un passo indietro rispetto a quanto deciso un anno fa e rispetto a quanto ci chiede l’Europa

di Sabina Pignataro

Quello dei rider non è un mestiere (solo) di gambe. La tecnologia pervade, domina e determina il modo di lavorare e di guadagnare. Eppure, poche settimane fa, il Governo ha cancellato il diritto dei rider (i tanti addetti alle consegne di cibo e bevande a domicilio che operano in Italia e chi in generale lavora per una piattaforma digitale) di conoscere le regole dell’algoritmo che organizza il loro lavoro.

Dal Decreto lavoro sono state, infatti, stralciate le norme dei decreti Trasparenza, emanati la scorsa estate dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Un principio, che recependo la direttiva europea in materia di informazioni e obblighi di pubblicazione sui rapporti di lavoro, il governo precedente aveva voluto fissare in maniera chiara, stabilendo un diritto di accesso all’algoritmo a favore di chi lavora per una piattaforma.

«In pochi sanno che il mestiere di rider non si limita al lavoro di gambe, c’è la pressione di dover rispettare determinati tempi, l’ansia di non perdere le notifiche di assegnazione delle consegne e la necessità di imparare nuove competenze, come la capacità di gestire le proprie emozioni (di sorridere anche quando non se ne ha voglia), salire in silenzio cinque piani di scale, e incassare ogni offesa senza ribattere, pena una recensione negativa che pesa sul salario», osserva Rosita Rijtano, giornalista di Libera e Gruppo Abele e autrice di "Insubordinati", un libro- inchiesta sui rider che svela quello che succede prima che il sushi arrivi a casa.

«I rider sono entità pirandelliane, dai mille volti e dalle altrettante esigenze, per quanto gli analisti si sforzino di ingabbiarli nelle statistiche», spiega. «C’è un messaggio che le aziende di food delivery cercano di far passare a ogni occasione e in ogni modo: dall’inizio le piattaforme hanno detto a noi clienti che i rider sono tutti studenti. Hanno detto ai rider che offrono un lavoro davvero cool, dove ognuno è imprenditore di sé stesso. Ma la realtà non combacia con la propaganda».

Attraverso interviste, documenti ufficiali, inchieste giudiziarie e l’indagine sul campo – seguendo passo passo alcuni ciclofattorini nel loro lavoro quotidiano – l’autrice ricostruisce un contesto lavorativo dove il “capo” è una piattaforma digitale e l’algoritmo decide per te tempi, percorsi, orari e, soprattutto, compensi. Ovviamente oltre a raccogliere senza sosta dati su rider e clienti finali.

Un settore variegato, dove trovi fianco a fianco chi è riuscito a farsi portatore di vertenze sindacali e ha ottenuto il contratto di lavoro subordinato e chi, al contrario, si batte affinché questo lavoro rimanga libero e autogestito. Una difficoltà tutta legislativa di riconoscere i diritti di queste figure, il cui numero cresce sempre di più con l’aumentare delle piattaforme digitali.

I rider, sottolinea sono «una categoria di lavoratori che spesso rimane afona: non sappiamo quanti siano esattamente i corrieri impiegati nella gigantesca industria del food delivery, né conosciamo il loro profilo».

Nuove forme di sfruttamento

Quello che sappiamo invece è che la loro esperienza è fatta di vessazioni e violenze (anche fisiche, a volte), contratti debolissimi e assolutamente incapaci di inquadrare correttamente queste figure ibride figlie della gig economy, a metà strada – o forse no – fra lavoro subordinato e libera professione. Ma anche sfruttamento e caporalato, come emerge da numerosi processi in tutta Italia e fedelmente riportati da Rosita Rijtano.

Sempre a proposito di caporalato, l’inchiesta LifeIsAGame, realizzata per IrpiMedia da Laura Carrer e Luca Quagliato racconta (QUI) come nel maggio 2020 il Tribunale di Milano aveva commissariato Uber Italy per caporalato a danno dei rider, decisione poi revocata a marzo 2021 dalla sezione misure di prevenzione dello stesso tribunale. Secondo gli autori «attraverso un “nuovo mercato” come quello del food delivery, è possibile scorgere vecchie pratiche di sfruttamento e nuove criticità del mondo del lavoro: come detto dagli stessi migranti dichiaratisi parte civile nel processo, "[questa] è un’opportunità unica di lavorare, soprattutto per chi non ha i documenti"». Sempre secondo Carrer e Quagliato, «le società di intermediazione che reclutavano i lavoratori migranti nelle piazze o direttamente attraverso il passaparola di Uber, ignoravano le indicazioni di pagamento dell’applicazione della stessa Uber, corrispondendo un cottimo di tre euro a consegna deciso in maniera arbitraria».


Quasi sempre ignote le regole dell’algoritmo

«Se sei un rider, il tuo capo è un algoritmo», osserva Rosita Rijtano. «La tecnologia permette gradi di controllo nuovi e mai così invasivi. Le aziende collezionano migliaia di dati sulle prestazioni dei rider, monitorandoli pedalata dopo pedalata. Dati che finiscono in pasto a dei software responsabili di decisioni automatiche e importanti per la vita dei fattorini.

Una questione che non riguarda solo i rider, anzi. Nel suo libro l’autrice racconta che nel nuovo mercato del lavoro la lotta dei ciclofattorini per il riconoscimento di diritti e tutele per un impiego sicuro e dignitoso è un banco di prova decisivo. Da come sarà regolata o non regolata quest’attività dipende il domani di tutti noi.

Eppure, conclude l’autrice, «Non vorrei mai che la gente smettesse di ordinare a domicilio, ma che fosse più consapevole sì». Come? «Io uso certe app e non altre, raggiungo il corriere in strada, do spesso la mancia, evito le recensioni. Non basta, ma è qualcosa».

Come va nel resto d'Europa?

Attualmente le piattaforme di lavoro digitali si trovano di fronte a un mosaico di normative e decisioni differenti in tutta l'UE. Solo pochissimi Stati membri hanno adottato una legislazione nazionale volta specificamente a migliorare le condizioni di lavoro e/o l'accesso alla protezione sociale nel lavoro mediante piattaforme digitali.

Oltre 28 milioni di persone nell'UE lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali. Entro il 2025 questa cifra dovrebbe raggiungere i 43 milioni. Ad oggi, oltre il 90% delle piattaforme europee classifica le persone come lavoratori autonomi. Ma, dei 28 milioni di persone, circa 5,5 milioni potrebbero attualmente essere classificati erroneamente (fonte).

In effetti stanno aumentando le controversie. Ad oggi nell'UE vi sono oltre 100 decisioni giudiziarie e 15 decisioni amministrative riguardanti la situazione occupazionale delle persone che lavorano mediante piattaforme digitali. Nella maggior parte dei casi i giudici si sono pronunciati a favore di una riclassificazione dei contraenti indipendenti come lavoratori subordinati e delle piattaforme digitali come datori di lavoro.

Circa il 55% delle persone che lavorano mediante piattaforme digitali guadagnano meno del salario minimo orario netto del paese in cui lavorano. In media tali persone trascorrono 8 ore alla settimana svolgendo compiti non retribuiti (ad es. ricerca di compiti, attesa di incarichi) rispetto alle 12 ore che trascorrono svolgendo compiti retribuiti.

In apertura un frame di E noi come stronzi rimanemmo a guardare, un film italiano del 2021 diretto da Pif. Protagonista Arturo, un ex manager che viene assunto come rider dalla multinazionale Fuuber e deve adattarsi alla quotidianità di un impiego attraverso cui viene sfruttato e decisamente mal retribuito.

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