Economia
Università dell’economia cooperativa? Meglio una Business school
Il segretario generale di Euricse interviene sulla proposta di Carlo Borzaga. Il momento è propizio per muoversi sui due fronti: l’offerta di una formazione universitaria più diffusa e accessibile, presente nel maggior numero possibile di curricula accademici, e un’iniziativa per la formazione manageriale impostata secondo criteri di qualità e attrattività internazionale
Apriamo il dibattito sulla proposta di Carlo Borzaga di fare una Università dell'economia cooperativa e sociale. Qui il primo intervento.
La discussione sull’opportunità o meno di dotarsi di un’offerta formativa di livello universitario specifica per le imprese cooperative (ma il discorso può e deve ampliarsi a tutte le organizzazioni dell’economia sociale) non può ignorare alcuni dati di fatto. Il primo è che nel passato le situazioni che hanno visto nascere delle istituzioni dedicate – l’esempio emblematico sono il Cooperative College nel Regno Unito e la Mondragon Unibertsitatea nei Paesi baschi (nella foto) – erano concepite come espressione di un sistema cooperativo forte, in piena crescita, orgoglioso della propria identità, ma sostanzialmente marginale rispetto ai circuiti della formazione accademica ufficiale. Di conseguenza, il movimento cooperativo in alcuni contesti nazionali (non molti, per la verità) ha dovuto attrezzarsi autonomamente per creare un’alta formazione adeguata alla richiesta di competenze espressa dalle proprie imprese e reti. Lo sviluppo del movimento cooperativo ha così risposto alla stringente necessità di formare manager e amministratori con una base culturale e valoriale ben definita, per sostenere la crescita del settore senza il rischio di una diluizione della sua identità.
Un secondo aspetto da considerare è che altri paesi, invece, hanno visto i sistemi cooperativi optare per una strategia meno impegnativa, dal punto di vista organizzativo e economico, stabilendo occasionali rapporti con il sistema della formazione universitaria e della ricerca sulla base di specifici bisogni. Anziché concentrare le (scarse) risorse si è preferito disseminarle nella speranza di ottenere una presenza più diffusa. Con risultati non sempre soddisfacenti, tuttavia, in quanto l’idea di “diffusione” all’interno del mondo universitario si è dovuta scontrare con la refrattarietà che l’approccio “mainstream” agli studi economici ha manifestato a lungo di fronte alle forme di impresa alternative al modello orientato prevalentemente al profitto.
Oggi, entrambe queste opzioni richiedono di essere ripensate. Da un lato, il modello dell’”università cooperativa” soffre di un problema di endogamia: se il tema dell’identità non viene continuamente e criticamente rinnovato in relazione alle trasformazioni esterne e agli sviluppi della ricerca si rischia di replicare senza innovare, isolando la formazione in una ripetizione sempre uguale a se stessa di elementi valoriali che faticano ad orientare l’azione. E l’esperienza mostra che da questo rischio non è indenne il modello delle università cooperative esistenti, orientate alla didattica più che alla ricerca. D’altro lato, dopo decenni di granitica impermeabilità alle idee dell’economia sociale, il pensiero economico veicolato negli insegnamenti universitari sta lentamente ma gradualmente aprendosi a prospettive meno mainstream. È la conseguenza di un profondo cambiamento di prospettiva iniziato con la grande recessione del 2008 e proseguito attraverso la concatenazione di crisi che in questi ultimi dieci anni hanno scosso la fiducia nelle capacità taumaturgiche del mercato e delle sue istituzioni. In questo nuovo scenario la strategia della diffusione di un approccio di economia sociale all’interno dell’intero sistema universitario assume una dimensione diversa, più favorevole.
Venendo quindi alle prospettive future, il quadro attuale sembra offrire rispetto al passato più opportunità per aprire i curricula universitari ad un approccio di economia sociale. Una volta incrinate le certezze che hanno sostenuto l’affermazione di una visione totalizzante dell’economia di mercato, diventa accettabile, anzi ricercata, la valorizzazione della pluralità. Sarebbe un errore non profittare di questa fase di disorientamento per promuovere estensivamente nelle nuove generazioni lo studio delle forme di impresa cooperative e sociali. Al tempo stesso, però, sarebbe anche il momento giusto per creare una offerta di alta formazione sul modello delle business school. Rivolta alla dirigenza e ai quadri medio-alti, ovvero a quelle figure che oggi sono più esposte alla pressione del cambiamento organizzativo e che hanno più che mai bisogno di rinnovare strumenti gestionali e motivazioni. Specie in quei settori di attività in cui la ricerca di professionalità specializzate ha spinto le cooperative ad attingere all’esterno i propri manager, trovandosi non di rado a far fronte a problemi di disallineamento culturale e valoriale.
In sintesi, il momento è propizio per muoversi sui due fronti: l’offerta di una formazione universitaria più diffusa e accessibile, presente nel maggior numero possibile di curricula accademici, e un’iniziativa per la formazione manageriale impostata secondo criteri di qualità e attrattività internazionale. Le competenze e le risorse scientifiche non mancano. Le motivazioni e la domanda nemmeno. È proprio uno di quei casi in cui quel che conta è la volontà. Quella dei soggetti che dovrebbero avere interesse per un tale progetto.
*Segretario generale di Euricse
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