Economia
Unione Bancaria, è ora di un ripensamento
Le nuove regole spostano la responsabilità dal top management della banca alla clientela. È questo il bail in. Un cambiamento che getta una luce sinistra sul futuro rapporto tra banche e società civile. Ad avere la peggio saranno comunque i “creditori minori”
Dopo aver costatato gli effetti destabilizzanti provocati dal default di Lehman Brothers, nel settembre 2008, i governi si sono precipitati in soccorso delle istituzioni in difficoltà. La crisi è stata presentata come uno sfortunato incidente che ha richiesto un nuovo sistema di supervisione bancaria a livello europeo. Il punto centrale degli interventi dei regolatori è stato stabilire un presidio patrimoniale a fronte del rischio e limitare la leva finanziaria per mitigare l’impatto di fatti imprevedibili sulla solvibilità degli istituti di credito.
Un nuovo e ambizioso progetto è emerso: l'Unione Bancaria. Studiato per avere nuovi strumenti comuni con i quali affrontare eventuali crisi finanziarie sistemiche, prevede una vigilanza unica, affidata alla Banca centrale europea, un meccanismo unico di risoluzione per la ristrutturazione o liquidazione delle banche insolventi e un la costituzione di un fondo a garanzia dei depositi. Secondo i sui sostenitori, l’Unione bancaria sarebbe in grado di rompere il circolo vizioso tra crisi del debito sovrano e crisi bancaria, rendere il sistema bancario più sicuro e garantire che gli istituti falliti siano liquidate in maniera ordinata, a carico delle banche stesse. In particolare il fondamento dell’Unione bancaria è il bail in, che stabilisce una precisa gerarchia nella gestione delle crisi bancarie, per ridurre al minimo i costi di salvataggio a carico della collettività.
L’Italia, che ha accettato il bail in come nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, ha comunque preferito intervenire con il sistema tradizionale di salvataggio, vale a dire il ricorso al Fondo Interbancario di tutela dei depositi, per salvare dal dissesto finanziario quattro istituti di credito italiani, precisamente Banca delle Marche, Carife, Carichieti e Banca Etruria. Un intervento che ha inflitto pesanti perdite ai risparmiatori, e pone, tra le tante che questa vicenda ha portato bruscamente alla ribalta, una questione fondamentale.
Ma il bail in è davvero in grado di salvare le banche senza denaro pubblico? Difficile a dirsi. E vediamo perché. In caso di crisi bancaria, ad essere coinvolti saranno, nell’ordine, prima gli azionisti, gli obbligazionisti, e i possessori di depositi superiori a 100 mila euro. Poi il fondo di risoluzione, alimentato dal sistema bancario, e solo in ultima istanza gli stati nazionali con risorse pubbliche. Un’ipotesi quest’ultima tutt’altro che remota. Se si guarda alla mole di sofferenze che pesano sul sistema bancario italiano, pari a circa 181 miliardi, non si fa fatica ad immaginare che il coinvolgimento dei privati, incluso il ricorso ai fondi di risoluzione nazionali, potrebbe rivelarsi insufficiente a coprire le perdite e a ricapitalizzare le banche. Ad avere la peggio sarebbero comunque i “creditori minori”, vale a dire quegli obbligazionisti, pensionati e piccoli risparmiatori, che hanno investito in banca inconsapevole dei rischi. Mentre i correntisti più ricchi, con depositi superiori a 100 mila euro, possono sperare di cavarsela. A voler essere maliziosi, il meccanismo del bail in sembra voler ritardare più che scongiurare l’intervento dello stato a spese dei contribuenti.
Ma c’è dell’altro. La clausola, sempre nelle intenzioni dei regolatori, dovrebbe scoraggiare l’azzardo morale tra gli investitori, che rispetto al passato non potranno più mostrarsi disinteressati allo stato di salute di una banca nel momento in cui decidono di acquistare obbligazioni subordinate o senior, oppure di aprire un conto. Il messaggio è chiaro: la nuova regola spostano la responsabilità dal top management della banca alla clientela. In sostanza si vuole che i risparmiatori sappiano che avere i fondi in una banca comporta alcuni rischi, dimenticando però che molti di questi sono difficili da valutare anche per chi dispone di un’adeguata competenza finanziaria nelle scelte di investimento.
Il caso italiano fa emergere ancora una volta, le debolezze del progetto di Unione Bancaria, un processo di regolamentazione complesso e non ancora ultimato, ma che aspira a controllare un universo sofisticato e in continua evoluzione come quello della finanza. Negli anni le regole sono aumentate fino ad arrivare ad un mosaico di regolamentazione difficile da decifrare e da applicare. Così si ha la sensazione che gli sforzi degli esperti di Strasburgo non sono in grado di affrontare seriamente questioni che si trascinano dall’inizio della crisi. Come la necessità di separare le attività bancarie utili al finanziamento dell'economia reale dalle attività di speculazione, limitare i mega compensi ai manager, migliorare i sistemi di governance ancora poco trasparenti e limitare la propensione delle banche ad assumersi rischi eccessivi. Per dirla in breve la ristrutturazione del sistema bancario è stata affidata al bail in perché ciò che conta è far credere ai cittadini che è finita l'era degli "espropri" di soldi pubblici per salvare gli istituti di credito, in particolare le banche cosiddette "troppo grandi per fallire". Banche che comunque, a dispetto dei tentativi di smantellarle, continuano a espandersi. Il settore bancario europeo non è masi stato cosi concentrato come lo è oggi.
Il salvataggio delle banche italiane ha dimostrato come i presidi di capitale imposti dalle nuove regole abbiano incentivato le banche a mettere in campo pratiche scorrette di raccolta del pubblico risparmio, oltre ad escogitare nuove manovre per aggirare le regole. Quasi la metà delle obbligazioni subordinate, titoli bancari ad alto rischio, delle 4 banche, pari a 340 milioni su 768, è finita infatti nelle tasche dei piccoli risparmiatori, invece che sugli investitori istituzionali. Questo perché il capitale continua infatti ad essere l’elemento centrale della disciplina di vigilanza al fine di costringere le banche ad adottare comportamenti meno spregiudicati. Tutto è iniziato con i nuovi requisiti patrimoniali imposti da Basilea 3, entrato in vigore nel 2014, regole che stabiliscono la quantità di denaro che una data banca deve avere a disposizione nel caso i mercati dovessero prendere una brutta piega.
Il fondo di solidarietà, o altro intervento allo studio del governo italiano, potrà, forse, aiutare chi ha perso tutti i suoi risparmi con il salvataggio delle banche, ma getta una luce sinistra sul futuro rapporto tra banche e società civile.
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