C’è un un punto comune tra la comunità della cura e la neoborghesia che ci ha traghettati fuori dal vecchio capitalismo: è il valore delle relazioni… Un’alleanza per accompagnare l’Italia nell’attraversamento della confusa era delle moltitudini. Un’alleanza tra due grandi “comunità” che sino ad oggi hanno poco dialogato tra di loro e soprattutto poco hanno indagato su quanti interessi (e quante passioni) hanno in condivisione. Da una parte c’è la grande “comunità della cura”, quella porzione enorme di società che si occupa a diverso titolo di relazioni, di recupero, di guarigione. Dall’altra la neo borghesia, tessitrice infaticabile di trame economiche e di innovazione produttiva.
È il nuovo scenario messo a fuoco dal lavoro di Aldo Bonomi e dalla sua squadra di ricercatori («Anche noi siamo parte della comunità della cura: facciamo ricerca sociale, cerchiamo di capire i processi in atto, di cogliere percorsi capaci di metabolizzare i conflitti»). Uno scenario che per Vita diventerà nei prossimi mesi un programma di indagine sul campo e di racconto ai suoi lettori.
Vita: Cominciamo dalla fine. Che cosa unisce il destino di questi due soggetti in apparenza tanto distanti?
Aldo Bonomi: Due cose. Li unisce un deficit di autoconsapevolezza, che li espone a essere puntualmente dei capri espiatori. Ma soprattutto li unisce un’attitudine a pensare la propria identità e quindi la propria attività in termini di relazioni, e poco importa che siano dettate da una passione o da un interesse.
Vita: In che senso finiscono per essere dei “capri espiatori”?
Bonomi: Basta vedere quel che sta accadendo in questi mesi. La comunità della cura è messa sotto accusa da quella grande fetta di società egemone a livello comunicativo, che io chiamo “comunità del rancore”. Quella per intenderci che non esita a incendiare un campo rom per perimetrare i propri spazi vitali. Dall’altra parte, la neoborghesia produttiva paga la crisi non solo in termini economici ma anche di reputazione: vengono identificati come apprendisti stregoni, o traghettatori imprudenti. In realtà sono loro le prime vittime dell’impazzimento delle dinamiche della finanza globale.
Vita: Proviamo a fare un identikit. Da chi è costituita quella che lei ha ribattezzato “comunità della cura”?
Bonomi: È un mondo vastissimo. Va dagli insegnanti che svolgono un lavoro di inclusività nelle scuole italiane e che quando vengono chiamati a compiti di “sicurezza” dicono con chiarezza che non è quello il loro mestiere. Per questo li difendo fermanente dagli attacchi di Brunetta, perché si dovrebbe pesare il loro “merito” in termini di produzione di relazioni. Poi ci sono i medici. E gli psichiatri che curano gli individui davanti alle angosce del nostro tempo. Ci siamo noi ricercatori sociali (se facciamo racconto e non marketing). Ci siete voi giornalisti, se non fate pura comunicazione di persuasione. Ma ci sono categorie che vengono bollate di cinismo. Prendete gli avvocati: ci sono sempre più figure che vogliono sottrarsi dalla mercificazione del rapporto legale/cliente o che lavorano per arginare il proliferare della cause civili, specchio di una società in realtà sempre più incivile. Ci sono, ovviamente, tutti quelli che lavorano nelle marginalità sociali.
Vita: Sinteticamente: cosa unisce tutti questi soggetti?
Bonomi: Il fatto di concepire la propria identità nella relazione. Il contrario di quanto accade nella “comunità del rancore” dove l’identità è tutta poggiata sul soggetto e che sente quindi i diversi come nemici.
Vita: Qual è il punto di fragilità di questa grande “comunità della cura”?
Bonomi: Quello di pensarsi come icone della bontà e non come soggetto economico. Il rischio è quello di trovarsi nella tenaglia di una guerra civile molecolare, dove l’individualismo proprietario prende il sopravvento e il pensiero della cura viene socialmente esautorato. Anzi viene consegnato nelle mani dei nuovi demiurghi che si ergono a unici depositari dei buoni valori della società civile. Se si guarda la nostra società senza individuare la terza comunità, quella che io chiamo “operosa”, il rischio è di risolvere tutto nello schematismo dei buoni e dei cattivi. Uno schematismo senza via di uscita.
Vita: Ma la comunità operosa non è una comunità in diverso modo egoista?
Bonomi: Nella neoborghesia vedo qualcosa di molto diverso dall’imprenditore novecentesco. Oggi chi costruisce impresa ha risolto il conflitto tra capitale e lavoro e produce nuova composizione sociale. Hanno la loro anima nella connessione tra locale e globale, così come Olivetti l’aveva nella connessione tra fabbrica e territorio. E nella connessione tra i saperi del passato con quelli più innovativi. È una comunità che è consapevole di quanto conti la relazione e di quanto valga, anche dal punto di vista economico.
Vita: Se le cose stanno così, che cosa ha impedito sino ad oggi di costruire l’alleanza tra le due comunità di cui parlavamo all’inizio?
Bonomi: Un deficit di autoconsapevolezza da parte di entrambe. E una propensione della comunità della cura a privilegiare la costruzione di relazioni tra società e politica, guardando con diffidenza quanto accade nello scenario economico. La comunità operosa invece a volte ha la tentazione di chiudersi nel riduzionismo sociale e nell’individualismo proprietario.
Vita: Segnali in controtendenza ce ne sono?
Bonomi: Certamente. Sono tantissime esperienze già in atto di comunità della cura che sono anche comunità economica adatta ai tempi. Per questo suggerisco a Vita di prendere l’iniziativa e di raccontarle settimana per settimana. È un modo per farne patrimonio condiviso e di fare quella “rappresentazione” che oggi manca e senza la quale tutte queste esperienze rischiano di essere più fragili.
Vita: Un’ultima domanda. In genere si evoca la politica come soggetto delegato a favorire processi di questo tipo. Secondo lei chi deve prendersi la responsabilità di guidare un processo del genere?
Bonomi: Mi verrebbe da dire: ad ognuno. Ma per restringere il campo penso che sia un’occasione per questa neoborghesia che ha portato l’Italia fuori dal vecchio fordismo novecentesco, di dimostrarsi a tutti gli effetti classe dirigente. Che sappia quindi valorizzare il prezioso lavoro di interconnessione e di passione fatto ogni giorno dalla comunità della cura.
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