Mondo

Una vita per Pristina

"Grazie Laura", ha scritto su un biglietto una bambina kosovara. Le storie come quella della volontaria dell'Ai.Bi. di chi ha dato tutto per aiutare i profughi.

di Gabriella Meroni

Quella che ha pianto di più per lo schianto dell’aereo del Pam forse è stata Dafina, la bambina che era diventata la figlia a distanza di Laura Scotti. Dafina ha nove anni e abita a Grabvoc, un villaggio di minatori sulle pendici della montagna di Drenica. Suo padre è stato ucciso dai serbi, che con Grabvoc, uno delle prime basi dell’Uck, avevano un vecchio conto in sospeso. Laura Scotti incontra Dafina in uno dei suoi viaggi nella campagna kosovara, e subito diventano amiche. Ma si conquistano a vicenda quando Dafina decide di rompere la diffidenza e recita a Laura la poesia che aveva scritto in onore del padre. La bambina comincia a dire i versi a voce alta, sempre più alta, finché non ce la fa più e scoppia a piangere, ma non si ferma, e urlando e piangendo, a pugni chiusi, finisce la poesia. Allora Laura si alza e l’abbraccia forte, e Dafina smette di piangere. L’accendino di Dafina Venerdì 12 novembre, la sera della tragedia, qualcuno bussa alla porta della sede Ai.Bi.di Pristina. Un uomo entra con passo incerto e consegna una busta. Dentro c’è un accendino e un biglietto: un regalo e una lettera d’addio di Dafina per Laura. «Grazie Laura», scrive la bambina. «Mi mancherai. Ti voglio bene». Si commuove anche Elvin, che essendo l’unico albanese di casa è incaricato della traduzione del biglietto. E si commuovono gli altri amici di Laura: Rosy, Cristina, Nadia, Davide, Franco, tutti giovanissimi, tutti cooperanti Ai.Bi. da sei mesi a Pristina per ridare speranza ai kosovari colpiti da una guerra che fatica a diventare un ricordo. Ma gli amici di Laura non sono i soli italiani che lavorano a Pristina, la città che ha raddoppiato i propri abitanti dopo la guerra (250 mila prima, 500 mila oggi) grazie ai rifugiati e all’arrivo di migliaia di operatori umanitari di tutto il mondo. Duecentoquaranta ong, 4000 operatori espatriati, 20 mila kosovari che lavorano per loro, e centinaia di case, magazzini, cantine e garage affittati e contrassegnati con adesivi e bandiere di tutto il mondo. I due giorni più lunghi per Pristina sono stati sabato 13 novembre e domenica 14, quando sono arrivati i parenti delle vittime e si sono recuperati i corpi. Due giorni in cui tristezza, incredulità e ansia di verità sul disastro hanno tenuto migliaia di persone sotto shock. Tutto è accaduto in fretta: l’arrivo dei parenti e degli amici che il personale Kfor e Unmik (il governo provvisorio Onu guidato da Kouchner) hanno tenuto isolati dal resto del mondo, in una tenda montata fuori dall’aeroporto; il triste viaggio in elicottero sulla montagna del disastro; il pianto irrefrenabile che a un certo punto ha piegato l’addetta stampa del Pam, Anthea Webb, stremata dalla tensione e dal dolore per la perdita dell’amica Paola Biocca. «Potevamo esserci tutti su quell’Atr, potevo esserci anch’io» mormora Donatella Vergari di Terre des Hommes appena scesa dal piccolo aereo che ci ha portati qui. Non lo dice, ma in fondo è come se ci fosse stata anche lei, su quel volo. Perché le storie di chi è morto arrivando in Kosovo per aiutare sono simili a quelle dei tanti altri che già c’erano, e che continueranno a venirci, con gli stessi voli, su aerei quasi uguali. Le vite dei volontari sono così diverse eppure così uguali nella tensione di sperimentare un senso nuovo o diverso. Si parte per non sentirsi più inutili, si parte per ritrovarsi, oppure per spendersi, per condividere. Si parte per tutto questo insieme e per tanto altro ancora. Si lasciano lavori importanti e sicuri per questo, o si rinuncia alle prime opportunità, perché la vita da volontario appare la più concreta e vera. È stato così per Laura, per Paola Sarro, per Paola Biocca, per Velmore Davoli del Gvc, per Antonio Sircana della Caritas e per tutti gli altri passeggeri di quel maledetto Atr42. Per questo nella saletta del Grand Hotel Pristina dove la Kfor ha allestito un’unità di crisi, i discorsi di chi resta trascolorano facilmente dal ricordo di chi non c’è più alle cose da fare il giorno dopo. Gianfranco Guastella, il collega e amico della neuropsichiatra di Terre des Hommes Paola Sarro che avrebbe cominciato a lavorare all’ospedale di Pristina il 15 novembre, discute con Gianfranco Matera, psicologo: «Dobbiamo andare da quel primario a parlare del nostro progetto, doveva venire anche Paola, vuoi accompagnarmi tu?». Non è facile rimanere in questo Kosovo che vive ancora in un clima di violenza quotidiana di cui nel resto del mondo si sa davvero poco. A Pristina il bilancio è di 5 omicidi la settimana. Un poliziotto italiano di stanza a Pec confida: «Interveniamo ogni giorno per reati di sangue. La scorsa settimana a Decane ci sono stati 12 morti in un giorno». Dal bollettino Kfor del 13 novembre: a Mitrovica hanno sparato a due albanesi, quasi linciato un rom e tirato una granata in pieno centro. Con computer e candela La giornata dei ragazzi di Ai.Bi. è simile a quella di tanti altri cooperanti italiani, e comincia presto, alle 7 e mezza del mattino. Una doccia che si spera tiepida (l’elettricità manca per buona parte del giorno, e se non c’è, addio acqua calda e riscaldamento), una colazione balcanica a base di pane e proshut, la carne affumicata kosovara, e si esce sulle jeep verso i villaggi dove si svolge gran parte dell’attività di cooperazione. Si pranza se c’è tempo, altrimenti si aspetta il buio quando è meglio rientrare. Un tè caldo e via con il lavoro al computer: bisogna stendere i report, quantificare le spese, preparare i progetti, mandare fax e e-mail in Italia. Accanto al computer, una candela (dovesse mancare la corrente), e il telefono satellitare che permette il contatto col mondo. Due o tre volte a settimana ci sono le riunioni organizzative con i partner internazionali (Acnur, Pam, Echo), le altre ong, i rappresentanti della Cooperazione. E poi c’è la logistica, il lavoro di magazzino, i viaggi a Skopje per andare in banca a controllare se arrivano le offerte dei donatori o a fare acquisti in farmacia… La sera tutti incollati ai tg italiani per sapere cosa succede a casa, la cena con grandi piatti di pasta e poi a letto presto. Un lavoro faticoso che ha prodotto in pochi mesi risultati tangibili. Giovanni Caselli, direttore dell’ufficio della missione Arcobaleno a Pec, fa due conti: «Abbiamo finanziato i progetti di 20 ong per quasi 70 miliardi. I settori di intervento sono tanti, dall’assistenza medica alla distribuzione di cibo alla ricostruzione di edifici. Grazie agli italiani sono già 35 mila i kosovari che sono potuti rientrare nelle loro case». Nell’inferno di Kosovo Polje La ricostruzione è una delle priorità, perché il gelo in Kosovo è già arrivato, e se Pristina è quasi intatta, nelle campagne la situazione è ben diversa e l’unica opera visibile di ricostruzione è proprio quella degli operatori umanitari. Con Andrea Lorenzetti del Cesvi e l’interprete-ingegnere Gezim andiamo a Kosovo Polje, dove tutto è cominciato e tutto è anche finito. Oggi Kosovo Polje, Fushekosove in albanese, è una città morta. La gente si ammassa davanti agli scheletri delle fabbriche, sosta davanti ai cancelli chiusi da catene, come se aspettasse di rientrare a lavorare da un momento all’altro. Ma il mulino è chiuso, e il treno merci che trasportava carbone è fermo sui binari (come tutti i treni del Kosovo). In città è rimasta una comunità serba: i più poveri, quelli che non ce l’hanno fatta a fuggire. Oggi è giorno di mercato per loro, un mercato separato, di fronte all’ex biblioteca statale. Finiti gli acquisti, tornano a rintanarsi in casa, come i 400 serbi rimasti a Pristina che vivono da invisibili, nelle cantine. In campagna è peggio: dei villaggi di Miradia, Vragolia, Pomozotin, Lizmir sono rimasti gli scheletri anneriti di case bruciate, vestiti e scarpe disseminati sul terreno e i corvi che beccano qua e là. A pochi metri è stata trovata una fossa comune con 200 cadaveri. In giro, solo silenzio. «Qui tutti hanno ucciso tutti», racconta Gezim. «Un detto kosovaro dice che solo i camini dei vincitori resteranno in piedi. Qui i camini sono rimasti in piedi, ma nessuno ha vinto». Proprio in questa zona il Cesvi sta distribuendo i kit per la copertura dei tetti. «Lavoriamo in 25 villaggi, ripareremo più di 1200 abitazioni», spiega Andrea Lorenzetti, architetto trentenne di Massa Carrara che ha prolungato la sua permanenza per terminare i progetti. «A Peja abbiamo ricostruito sette case da zero». Un lavoro che si svolge con l’associazione kosovara Madre Teresa, stimatissima dalla gente. Andiamo nel palazzo della municipalità di Kosovo Polje, un monumento alle barriere che non vogliono cadere: al primo piano c’è l’Unmik, nel seminterrato l’autoproclamato governo serbo, al terzo piano l’autoproclamato governo albanese. Ci riceve Jakup Krasniqi di Madre Teresa, cui spetterà il compito di fare un censimento per il Cesvi su quante famiglie hanno bisogno di una casa nuova. Andrea e Gezim gli consegnano 150 moduli, lui li restituirà la mattina dopo. Un segno della voglia di ricominciare che si respira in questo Paese, dove le signore stendono con cura i panni sui balconi con la balaustra distrutta dai bazooka e la musica che esce dai qebabtore, i locali tradizionali in cui si serve carne alla piastra, invade le strade. Un Paese per cui alcuni italiani hanno dato la vita, e a cui molti altri ne stanno regalando la parte migliore.


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