Salute

Una sfida all’Aids. Lo fermiamo sul nascere

La vittoria al processo di Pretoria contro le multinazionali farmaceutiche apre opportunità concrete per combattere l'HIV. Al via un progetto di solidarieta' del Cesvi con Vita

di Gabriella Meroni

Da qualche parte in Zimbabwe, Africa sudorientale, una ragazza di 25 anni di nome Safina Magodhi sta allattando il suo secondo bambino. È un bel maschietto robusto, che alla nascita pesava quasi quattro chili. Safina l’ha chiamato Takunda, che significa “abbiamo vinto”, perché lui, a differenza di altri neonati (o del suo fratellino, morto a una sola settimana di vita) ha veramente vinto: è stato infatti il primo bambino dello Zimbabwe trattato con un nuovo farmaco anti Aids che gli salverà la vita. Un farmaco arrivato per la prima volta nel Paese il 9 maggio e che potrà impedire il contagio di migliaia di altri piccoli, altrimenti condannati a morire entro pochi mesi. Da Takunda, il 9 maggio ha preso il via una rivoluzione nelle terapie contro l’Hiv nel terzo Paese africano più colpito dal contagio, dove un abitante su quattro tra i 25 e i 40 anni è sieropositivo, e si contano mille morti la settimana. Si chiama “Fermiamo l’Aids sul nascere” questo timido, ma sicuro inizio di speranza, dietro cui c’è l’impegno di una ong italiana, il Cesvi, di una dottoressa coraggiosa e sensibile, Claudia Gandolfi, di un ospedale sperduto in mezzo agli altopiani ma, soprattutto, di tutti coloro che vorranno sostenere questa iniziativa. Siamo nella sede del Cesvi, a Bergamo. A precisare i contorni dell’operazione è proprio la dottoressa Claudia Gandolfi, 53 anni, romana, ad Harare da un anno con il marito, funzionario della Cooperazione italiana. Perfino per una scafata come lei – master a Londra nella gestione di progetti sanitari nei Paesi in via di sviluppo, da vent’anni in giro per il mondo, abituata a lavorare in situazioni di emergenza in altri punti caldi come il Senegal o la Palestina – lo Zimbabwe è stata una pessima sorpresa. «Appena arrivata mi sono resa conto che l’Aids è talmente diffuso che non desta quasi più allarme, ci si convive», racconta. «Parlando con la gente la cosa più frequente che capita di sentire è “oggi sono stato a un funerale, domani ne ho un altro”. In pochi mesi ho visto morire tre tecnici di laboratorio dell’ospedale in cui lavoro, la domestica della sede del Cesvi, perfino il cuoco dell’ambasciatore… È impressionante. Il livello del contagio è tale che non ha niente a che vedere con le altre piaghe sanitarie africane che pure conoscevo, come la dissenteria, la malaria, la tubercolosi. Così ho deciso, dopo l’incontro con i responsabili del Cesvi, che era il momento giusto per fare qualcosa». Detto, fatto: Claudia si mette a studiare il problema, e capisce, insieme agli amici del Cesvi, che la strada per salvare almeno i più piccoli dal contagio (che nel 2000 ha fatto 56 mila vittime con meno di 15 anni) ha il nome di un farmaco generico conosciuto da vent’anni, ma solo recentemente sperimentato e approvato dall’Organizzazione mondiale della sanità: la Nevirapina. «È un antiretrovirale, come il più famoso Azt», continua la dottoressa Gandolfi, «ma costa 70 volte di meno ed è molto semplice da usare». Bastano due dosi per salvare un bambino: la prima è una pastiglia che blocca la trasmissione del virus durante il parto, e la prende la mamma poco prima del travaglio, con un bicchiere d’acqua. La seconda dose, in forma liquida, si dà al neonato 48 ore dopo la nascita. Costo della terapia: meno di 4000 lire. È la svolta. «Certo, e dobbiamo ringraziare la mobilitazione della società civile e il processo del Sudafrica che ha permesso l’ulteriore abbassamento del prezzo di questo farmaco, che prima costava più del triplo», interviene Francesco Giulietti, uno dei cooperanti Cesvi in Zimbabwe. «Se, per ipotesi, il governo dovesse acquistare dosi di Azt sufficienti a curare tutta la popolazione malata, spenderebbe il 14 per cento del Pil». La dottoressa Gandolfi apre una scatola di cartone ed estrae dall’imballaggio un vetrino e alcuni barattoli di reagente. È il kit diagnostico di sieropositività cui sono sottoposte le donne in gravidanza che accettano di entrare nel protocollo della Nevirapina. Non tutte le ragazze, infatti, sono disposte a farsi curare. «C’è un grosso ostacolo culturale, quasi un tabù sull’Aids in Zimbabwe», spiega ancora Claudia, «che non deriva tanto da motivi religiosi o morali, legati alla condotta sessuale che comunque resta il principale veicolo di contagio, quanto dalla condanna a morte che la malattia rappresenta. Chi si scopre malato sa che avrà poco da vivere, e che per questo sarà emarginato e abbandonato da tutti. Quindi tenta di nascondere la malattia, e finché può tira avanti, comportandosi come sempre e quindi contagiando i propri partner. Sono in Zimbabwe da molto tempo», prosegue, «eppure non ricordo che nessuno abbia ammesso davanti a me di essere malato di Aids, anche quando la malattia era evidente». Per questo il Cesvi ha scelto la strada della formazione, sostenendo il lavoro di speciali équipe sanitarie dell’ospedale in cui si distribuisce la Nevirapina, il St. Albert’s del distretto di Centenary, che vanno di villaggio in villaggio a parlare con le donne, cercando di convincerle a fare il test per salvare i loro figli. C’è posto per 2400 di loro, almeno fino alla fine dell’anno: tra loro, almeno 800 risulteranno malate. Se la campagna riceverà il giusto sostegno, però, si spera di poter fare di più, estendendo il trattamento ad altri ospedali e poi, chissà, ad altri Paesi. Oltre alle dosi di Nevirapina e al training delle madri, infatti, c’è anche una fase post terapeutica che comprende l’allattamento del bambino fino al completo svezzamento. «Circa il 30% dei contagi tra mamma e neonato avviene attraverso il latte», avverte Claudia Gandolfi. «Specie dopo il terzo mese, quando l’effetto protettivo della Nevirapina va scemando. Per questo il progetto comprende anche una fornitura di latte artificiale per sei mesi, e un periodo di formazione per le mamme che devono imparare a nutrire correttamente i figli». Anni di campagne di boicottaggio contro il latte artificiale hanno insegnato infatti che spesso le condizioni igieniche dei Paesi poveri non permettono di sterilizzare i biberon (che a volte nemmeno esistono) e soprattutto l’acqua con cui si “allunga” il prodotto in polvere, arrecando danni gravissimi ai neonati. Ma il Cesvi ha previsto il problema: «Gran parte della cifra che chiediamo ai sostenitori», dice Francesco Giulietti, «sarà impiegata proprio per far sì che questa fase critica dello sviluppo del bambino sia svolta in modo corretto dalle madri stesse, cui insegniamo a bollire l’acqua e a seguire elementari norme igieniche. Sarebbe un delitto proteggere un bambino per i primi 3 mesi di vita e poi lasciarlo in balia del virus». Il programma Nevirapina, comunque, funziona e ha già dato risultati straordinari per l’Africa. In Uganda ad esempio ha dimezzato la trasmissione dell’Hiv tra mamma e bambino. E l’Onu l’ha solennemente riconosciuta come la via maestra per bloccare il contagio verticale del virus e restituire all’Africa una nuova generazione, che altrimenti sarebbe condannata a estinguersi e oggi invece, grazie all’iniziativa italiana, può sperare di vivere. Anzi: di vincere. Il progetto Ecco cosa si farà con le tue 250 mila lire • Quanto costa aderire: salvare la vita di un bambino costa solo 250 mila lire. Questa è la cifra fissata dal Cesvi per sostenere la campagna “Fermiamo l’Aids sul nascere”, che prevede un approccio completo al problema: innanzitutto, la somministrazione di Nevirapina, un farmaco che blocca la trasmissione dell’Hiv da madre a figlio, ma anche la formazione delle mamme e degli operatori sanitari, il test rapido sull’Hiv, un ulteriore test di controllo sui bambini trattati dopo 18 mesi. Per rendere operativo il programma si dovrà anche procedere all’acquisto di materiale sanitario, automobili per il lavoro sul campo, attrezzature per l’allestimento di uffici. • I destinatari: il progetto sarà realizzato nell’ospedale St. Albert’s nel distretto di Centenary, a 200 chilometri a nordest dalla capitale Harare. I destinatari saranno inizialmente 2400 donne, che verranno sottoposte al test Hiv: tra queste si stima di trovare circa 800 donne (e bambini) da trattare con Nevirapina. • I costi in dettaglio: le 250 mila lire saranno spese come segue: 9000 lire per il test sulla mamma, 3600 lire per la terapia farmacologica vera e propria, 9000 per il test a 18 mesi sul bambino, 176 mila lire per il latte artificiale. Al totale di 197.600 lire va poi aggiunto un 20 per cento destinato alla formazione (39.520 lire) per un totale di 237.120 lire arrotondate a 250 mila. • Per contribuire: per tutte le informazioni sulle donazioni, e per donare con carta di credito, numero verde 800.036.036 – conto corrente postale n° 324244 intestato a Cesvi, via Pignolo 50, Bergamo, con causale “Fermiamo l’Aids sul nascere”. Il telefono del Cesvi è 035.243990, il sito www.cesvi.org Il Paese Lo Zimbabwe (ex Rhodesia) è uno degli Stati africani più colpiti dall’Aids: su 11,5 milioni di abitanti, i sieropositivi sono 1,5 milioni, tutti concentrati nella fascia di età tra i 25 e i 40 anni. I morti l’anno scorso sono stati 160 mila, gli orfani 900 mila. L’incidenza dell’Hiv tra le donne in gravidanza è del 30%, con punte del 50%. La speranza di vita non supera i 44 anni e la mortalità infantile è di 400 nati ogni 100 mila (in Italia è 7). Quanto all’economia, il reddito pro capite è di due dollari al giorno, il debito estero supera i 4700 milioni di dollari.


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