Giornata Mondiale

Una sconosciuta che chiamo sempre mamma, questo è l’Alzheimer

Che cosa significa avere un genitore malato di Alzheimer? La scrittrice Gigliola Alvisi racconta la sua esperienza con la madre Caterina. Dieci anni pieni di dubbi e solitudine emotiva. Ma la fatica più grande è dover dimenticare la propria madre e imparare a relazionarsi con una sconosciuta che abita il suo corpo

di Rossana Certini

Strategia è la parola che più ricorre quando Gigliola Alvisi, vicentina di nascita e padovana di adozione, scrittrice di libri per ragazzi, racconta la storia di sua madre Caterina, classe 1935, da dieci anni malata di Alzheimer. C’è la strategia messa in campo dalla donna per non far percepire alle figlie gli esordi della malattia e c’è quella di Gigliola, oggi, per relazionarsi ogni giorno con una madre diversa dalla donna che l’ha cresciuta.

«Era da poco mancato mio padre», racconta Alvisi, «e mia madre doveva cambiare casa. Il giorno in cui è arrivato il camion del trasloco ci siamo accorti che non aveva imballato nessun oggetto. Io e mia sorella eravamo sgomente. Non capivamo. Nostra madre è sempre stata una donna meticolosa, precisa e molto organizzata. Ci sembrava impossibile che non avesse inscatolato niente. Ci siamo subito messe ad aiutarla ma capivamo che lei non sapeva bene cosa portare nella nuova casa e cosa lasciare. Ricordo che ci siamo ritrovate a caricare tutto sul furgone senza porci tante domande».

Era il 2013 e Rina, come tutti la chiamavano, aveva ancora la capacità di usare delle strategie per nascondere quel che le stava accadendo.

Ho imparato che non potevo fare i conti con una madre che non c’era più. Dovevo scoprire una nuova mamma e diventare genitore di chi non vuole essere figlio

Gigliola Alvisi

«Per mesi quando la domenica da Padova andavo a trovarla a Vicenza», prosegue Gigliola, «mia madre mi ha dato appuntamento in strada. Mi proponeva una passeggiata, mi diceva che non aveva voglia di stare in casa. All’inizio non ho dato peso a questa sua richiesta, anche perché non avevamo un rapporto complice. Un giorno però è stata colpita da un’ischemia e sono entrata in casa. Non credevo ai miei occhi. Il disordine regnava ovunque. Ho scoperto che il suo medico le aveva già proposto un percorso diagnostico per l’Alzheimer, ma lei si era rifiutata di farlo. Usava le sue strategie per non far capire nulla a nessuno. Se incontrava qualcuno che non riconosceva ma che la salutava, lei chiedeva subito: “Tutto bene in famiglia?”. Così l’interlocutore, rispondendo, le dava dei riferimenti che lei usava per proseguire la conversazione con frasi che rimanevano sul generico. Abitando in due città diverse, con questi stratagemmi, è riuscita a confondermi per qualche tempo».

La signora Caterina e il suo cane Macchia (foto da Gigliola Alvisi)

Il periodo più difficile è stato quello in cui è diventato evidente che Rina non poteva più vivere sola in casa ed è stato necessario assumere un’assistente familiare. Lei però «rifiutava qualsiasi aiuto», spiega Gigliola, «chiunque assumevamo dopo un po’ se ne andava via perché mia madre contestava tutto, era aggressiva e non voleva che nessuno l’aiutasse. Noi figlie – di contro – non riuscivamo a capire se quello che ci raccontava su queste signore fosse vero o meno. Sentivo il senso di colpa costante di dovermi dividere tra la mia vita e la sua. In quel periodo ho frequentato un gruppo di auto aiuto che mi è servito molto, perché condividere la mia esperienza con altre persone che capivano la mia angoscia mi ha fatto sentire meno sola. La psicologa che guidava gli incontri ci ha insegnato a non porci domande su quello che i nostri genitori non sapevano più fare ma a puntare sulla relazione nuova da costruire con loro. Ho imparato che non potevo fare i conti con una madre che non c’era più. Dovevo scoprire una nuova mamma, che per altro ogni giorno cambiava. Purtroppo con un familiare con l’Alzheimer si diventa genitori di chi non vuole essere figlio. Questo è il vero problema».

Ho frequentato un gruppo di auto aiuto che mi è servito molto. La psicologa che guidava gli incontri ci ha insegnato a non porci domande su quello che i nostri genitori non sapevano più fare ma a puntare sulla relazione nuova da costruire con loro

Gigliola Alvisi

Oggi la signora Caterina è stata accolta in una residenza per persone con Alzheimer. Passeggia felice nel giardino con le sue nuove amiche. È sempre sorridente e la durezza che aveva caratterizzato la sua giovinezza sembra svanita.

«È come rinata», prosegue Gigliola, «la cosa divertente è che tutti l’hanno sempre conosciuta come la signora Rina, ma da quando ha l’Alzheimer si presenta come Caterina, il suo nome anagrafico. Lo scrive ovunque: su piccoli pezzi di carta, sulla parete vicino al suo letto. Mi sento spesso sola in questo viaggio, lo ammetto: mio figlio e mio marito, a volte, non comprendono la mia ostinazione a cercare mia madre in una persona che non lo è più. Il mio essere indispettita quando stravolge la narrazione della nostra storia di famiglia. Ho imparato a capire che con la fantasia rimetteva insieme i pezzi di una vita che le stava sfuggendo dalla memoria».

A un certo punto Gigliola ha sentito l’esigenza di raccontare le piccole esperienze quotidiane con la madre sulla sua pagina Facebook. «Le ho chiamate “Dory nel paese delle meraviglie”, come la piccola pesciolina smemorata della storia di Nemo. Sono frammenti di vita quotidiana che aiutano me a vivere con un pizzico di ironia la situazione e a chi legge a immedesimarsi in una realtà che può capitare a tutti».

C’è Dory che nel parco della residenza in cui vive incontra, insieme alla sua amica (“la Francese”), un signore di 97 anni che sfoggia una maglietta con la scritta Hakuna Matata e legge l’Internazionale. C’è Dory che bara giocando a carte con l’infermie della residenza e nasconde le carte nella manica della maglietta. E c’è la donna che riconosce la nipote solo dalla voce, l’abbraccia forte e le dice all’orecchio «Mi raccomando, non dimenticarti di me».

Nella foto di apertura Gigliola Alvisi e la mamma Caterina (foto da G. Alvisi)

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