Economia

Una ricetta per l’Italia

Parla Enzo Rullani, teorico della conoscenza e dell'immateriale

di Maurizio Regosa

Nel 2009 si è tanto parlato di crisi. Pochissime però le proposte per rilanciare il Belpaese. Soluzioni sostenibili e concrete ne ha avanzate invece l’economista Enzo Rullani sul numero 33 di Vita (l’intervista è a pagina 7). Per imporre al mondo la nostra creatività, esportando ad esempio gli stili di vita, serve un modello. Non c’è nemmeno bisogno di crearlo: esiste già e si chiama Slow food.

Per toccare con mano gli effetti della crisi economica, basta prendere il Prodotto interno lordo del primo trimestre 2007 (318.751 milioni di euro) e confrontarlo con il Pil del medesimo periodo di quest’anno (è sceso a 304.056 milioni). Un calo dietro il quale si registra una concretissima diminuzione della spesa familiare: nel primo trimestre 2007 assommava a 188.071 milioni; nello stesso periodo di quest’anno a 183.432. Il confronto rende evidenti le rinunce e i rinvii cui molti di noi hanno dovuto abituarsi, e conferma la necessità di soluzioni efficaci. Alcune le propone, in questa intervista, Enzo Rullani (autore fra l’altro di Economia della conoscenza e La fabbrica dell’immateriale).

VITA: Cominciamo dalle difficoltà innescate dalla finanza e dall’immobiliare.

ENZO RULLANI: È una crisi di domanda. Finora l’abbiamo affrontata con gli ammortizzatori. Un atteggiamento riduttivo. Il fatto è che viviamo in un capitalismo instabile. E l’instabilità è dovuta a globalizzazione e immaterializzazione.

VITA: Cos’è l’immaterializzazione?

RULLANI: Tutti i nostri asset sono a base di conoscenza, la quale non ha un valore definito. Può valere tanto se si ritiene che le molte persone che la condividono possono guadagnare. Può valere zero, se tutti pensano che sarà superata, copiata, pirateggiata. Ecco dove sta l’instabilità. Il capitalismo globale è instabile strutturalmente. Non possiamo farci niente.

VITA: Nemmeno aggiustamenti?

RULLANI: Dobbiamo imparare a vivere in questa instabilità, che è anche forza: c’è un potenziale enorme nell’uso globale della conoscenza e nella produttività.

VITA: Spesso si reagisce con la chiusura.

RULLANI: Invece dovremmo condividere i vantaggi, sfruttando il valore della conoscenza. Dobbiamo imparare a vivere condividendo il rischio e organizzando un capitalismo della flessibilità organizzata.

VITA: In che modo?

RULLANI: Ad esempio introducendo l’idea che capitale e lavoro dividano i vantaggi quando va bene, e i rischi quando le cose si fermano. Le pare possibile che oggi si dica «dilazioniamo i mutui»? Deve essere fatto all’inizio, configurando il rapporto creditizio in un certo modo se le cose funzionano, in un altro se vanno male. In Italia abbiamo più possibilità per tale cambiamento. Da noi, le aziendine hanno bisogno di fare patti di condivisione del rischio con le banche, con i lavoratori, con tutti. Si potrebbero fare degli esperimenti.

VITA: La seconda crisi?

RULLANI: Riguarda la competitività. L’Italia era prima il paese low cost. Eravamo i cinesi d’Europa. Poi sono arrivati i cinesi veri e i nostri costi sono diventati alti. Un 25% dei nostri prodotti non si può più fare in Italia. Invece difendiamo attività che alla lunga dovremo cedere.

VITA: Stiamo sul fronte sbagliato.

RULLANI: Appunto. Bisogna identificare e chiudere questo 25%, casomai dando un bonus all’imprenditore se esce, non se rimane in trincea. Inoltre dobbiamo avere un dislivello di produttività a nostro favore. Vantaggio che non deriverà dalla tecnologia, dove non siamo fortissimi, ma dall’innovazione d’uso.

VITA: Che serve per questa innovazione?

RULLANI: Tre cose. Primo l’accesso alla tecnologia altrui. Un tempo era più facile: si compravano le macchine tedesche, ci si aggiungeva qualcosa e poi le si produceva. Oggi non si può più fare. In generale la conoscenza si trasferisce con linguaggi formali. Per questo abbiamo bisogno di più laureati, almeno uno per ogni azienda. La cui funzione non è di entrare in fabbrica e subito lavorare, ma di conoscere i linguaggi formali per relazionarsi con i partner anche stranieri. Senza un investimento nell’istruzione non c’è innovazione d’uso.

VITA: Il secondo fattore?

RULLANI: La ricerca diffusa. Le competenze invecchiano. Per innovare, devi andare ai convegni, leggere le opere scientifiche, confrontarti. Per questo serve un ricercatore ogni dieci aziendine e una rete diffusa della ricerca.

VITA: Il terzo aspetto da presidiare?

RULLANI: La nostra creatività è invecchiata. Oggi il meccanismo della flessibilità che risponde ai bisogni creando, non basta più. I nuovi clienti sono più lontani. Dobbiamo entrare in contatto con loro se vogliamo riattivare la nostra creatività. Qui c’è un enorme equivoco. Si pensa che gli altri si appassioneranno al made in Italy. Ma l’idea che un cinese si innamori del made in italy, è astratta. Tocca a noi andare dal cinese e dirgli: «Tu che vuoi»? Servono idee motrici. Slow food è una di queste: prima vendi l’idea, poi i prodotti.

VITA: Slow food ha impiegato molti anni. Sono tempi lunghi.

RULLANI: Un buon motivo per cominciare adesso. Sull’alimentazione, ci sono buone premesse. Anche sulla moda. Perché non fare lo stesso sulla casa? Nessuno vende un’idea dell’abitare. Ora la casa dove si vive bene dev’essere ecologica, a basso consumo, sicura, ben illuminata, insonorizzata. È questa l’idea da promuovere, per arrivare poi ai singoli prodotti. Questo è rinnovare il made in Italy. Lo stile di vita è una cosa complessa, non facile da imitare. Copiare un prodotto è facilissimo.

VITA: La terza crisi?

RULLANI: È di sostenibilità. Un tema più ampio dell’ambiente, cui solitamente si applica. Facciamo il caso del lavoro. Il made in Italy è nato in un periodo di sovrabbondanza di lavoro. E ha creato un capitalismo estensivo che non abbiamo pensato di sostituire con uno intensivo. Poi si è verificato il calo demografico e noi abbiamo continuato a pensare le fabbriche come prima. Una strada insostenibile, una crescita dissipativa che ora dobbiamo rendere di tipo riflessivo.

VITA: Perché questi errori?

RULLANI: Perché abbiamo distrutto il senso della comunità. Abbiamo cominciato a fidarci di alcuni automatismi senza chiederci dove ci avrebbero portato. Il mercato è uno di questi automatismi. Anche il welfare però ha la sua colpa: ha detto «faccio io i servizi universali». Ma universali significa impersonali, standard. Lo stato fordista ha ucciso la comunità che oggi dobbiamo ricostruire. Quello di cui prima la comunità si faceva carico, è stato trasformato in politica. Poi la politica si è inceppata, ma le comunità nel frattempo erano state abbandonate.

VITA: Recuperiamo la sfera pre-politica.

RULLANI: Ciascuno deve riscoprire una soggettività collettiva che non può essere solo quella dello Stato. I soggetti collettivi servono per una crescita riflessiva.

VITA: Il terzo settore va in questo senso.

RULLANI: Dobbiamo ripartire da qui. Dalla costruzione di veri soggetti collettivi che sono i luoghi della riflessività. Va cambiato il rapporto tra politica e terzo settore. La politica controlla il welfare. Invece dobbiamo prendere il welfare e portarlo sul terzo settore, legittimandolo come struttura di welfare di base. Se sono malato in prima istanza sto nella mia comunità. Se ho una malattia rara vado altrove. E così per tutto il resto.

OLTRE 4 MILIONI. Sono le imprese italiane attive nell’industria e nei servizi con meno di 10 addetti. Rappresentano il 95% del totale. Quasi 3,7 milioni di lavoratori sono impiegati nelle piccole imprese (da 10 a 49 persone), e 2,2 milioni (12,6 %) in quelle medie (da 50 a 249).
0,5% DEL PIL. A tanto ammontano gli investimenti in ricerca e sperimentazione. Secondo il Censis, solo un terzo delle imprese italiane innova in modo visibile.
200MILA. Sono le piccole e medie imprese che lavorano all’estero: nel 2008 hanno esportato beni e servizi per 448 miliardi di euro (il 29,2% del Pil).


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