Politica
Una ricetta contro l’autonomia? La Ciambotta, parola di Chef
Federico Valicenti è l’inventore della cibosofia e della cucina topica (alternativa alla più commerciale cucina tipica), capace di raccontare un luogo attraverso i profumi e i sapori che hanno impregnato le sue tavole e la sua storia. Con lui prosegue il racconto collettivo dell’autonomia differenziata vista da Sud, a partire dalle voci di poeti e pensatori lontani da ricette economiche e rating di crescita
«L’autonomia è una tentazione che anche al Sud conosciamo bene. Tante volte anche a me viene da immaginare con divertimento ad una dogana sopra Napoli: un passaporto del Meridione, che trattenga qui le nostre ricchezze». Ascoltare Federico Valicenti, seguire i suoi pensieri che mescolano ricette, storie lontane e intuizioni geniali, è come fare un giro sulle montagne russe. Curve e discese inaspettate spezzano il fiato, ma riportano sempre al punto di partenza, la sua Terronava del Pollino. Piccolo comune che guarda il gigante lucano di cui porta il nome, e dalle cui spalle, nelle sere d’estate, si attende lo schiudersi lento di una incredibile luna rossa.
Così è anche la vita del noto chef lucano: lunghi viaggi in giro per il mondo a presentare i suoi libri, ospite d’onore in diversi programmi televisivi, la notorietà di MasterChef, ma non riesce a fermarsi a lungo lontano dalla terra dov’è cresciuto. A pochi passi dagli antichi insediamenti albanesi di cultura harbereshe, nel cuore di una Basilicata antica, dove tutto si mescola e confonde, la diversità è ricchezza e la povertà occasione di relazione.
«Mi piace divagare quando mi faccio prendere dal discorso» confessa Valicenti. «Solo quando parlo con i nostri politici cerco di contenermi, perché mi rendo conto che loro non ce la fanno proprio a seguirmi. Mi chiedono quale visione possiamo costruire per la nostra terra, ma un attimo dopo sono a pensare a quali nuovi uffici aprire e a chi devono ricambiare il favore».
Gli effetti dell’autonomia? Basta vedere la Basilicata
Per capire a cosa va incontro l’Italia inseguendo il progetto autonomista del Governo, secondo l’inventore della cibosofia, è sufficiente vedere quello che già sta accadendo in Basilicata. «Da quando ci hanno detto che sotto i nostri piedi c’era la più grande riserva petrolifera del continente, abbiamo iniziato a rivendicare giustamente le nostre royalties, a spartirci i soldi tra i territori, a ciascuno in base alla sua competenza. Dieci milioni di euro l’anno solo in Val d’Agri. Eppure siamo sempre più poveri, sempre più soli, ci stanno svuotando insieme ai giacimenti. Perché quando un territorio pensa di essere autosufficiente, è allora che inizia a morire. È una piacevole illusione l’autonomia».
Agli amici del Nord dico: venite a vedere cosa è accaduto in Basilicata da quando ci hanno detto che eravamo l’Eldoraro italiano. Ci hanno fregato
Il mondo intero a tavola
Lungo tutte le strade della Basilicata campeggiano enormi manifesti che annunciano acqua gratis per i lucani, in tv gli spot che invitano a trasferirsi in Basilicata per non pagare più il gas. Come si fa a tenere insieme apertura al mondo e radicamento alla propria terra?
Valicenti non ha dubbi: «mi viene in mente Rocco Scotellaro: “torna, è ora che assaggi molliche di pane, l’odore dei forni come te lo manderemo?” Con queste parole invita il padre a lasciare l’America per rientrare in Basilicata. Non lo fa con promesse di ricchezza o, peggio ancora, con la coercizione del dolore: vieni perché la Basilicata sta morendo, torna perché mamma sta male. Lui lo fa attraverso i profumi del cibo. Un cibo che racconta la storia di un popolo e di mille popoli insieme, che ci appartiene e ci chiama. Altro che autonomia, nei nostri piatti c’è il mondo: pensa ai nostri Raviolini di ceci: ce li hanno portati gli arabi. Le buonissime Grattonate? Arrivano a noi dal nord Europa nel 1300. Il rafano, che arricchisce tantissimi nostri piatti, ci fu portato probabilmente dai veneti. I Bilbanti, la nostra pasta grattata è un cus cus lucano. I magnifici giardini di aranceti a Tursi? Li hanno piantati gli arabi, perché era a metà strada tra Napoli e Brindisi: la vitamina c delle arance serviva come antiscorbutico per i marinai che andavano ad imbarcarsi. La lucanissima polvere di peperone Crusco, ce l’hanno suggerita gli ungheresi. Dagli albanesi abbiamo imparato l’uso delle spezie. In ogni nostro piatto c’è il mondo. Lascia perdere le bruschette e le cialledde che rifiliamo ai turisti spacciandole per piatti della tradizione».
Tra storia e religiosità
I racconti di Valicenti sono come fiumi carsici, inarrestabili. Continua «Ho trovato un manoscritto di cucina lucana del 1524 all’Università romana di Colonia. C’è un piatto che si chiama il Tarantello, fu fatto in onore di Carlo V quando entrò a Taranto nel 1564, se non vado errato. È un misto tra tonno, mosto e datteri. C’è tutto il mediterraneo dentro».
Il cibo non mente, dice da dove veniamo e al cibo abbiamo imparato a legare ogni aspetto della nostra vita, civile e religiosa. Qui ogni festa ha un piatto speciale e tantissimi piatti hanno una loro Madonna
E le elenca una ad una Valicenti, le madonne lucane, per sfidare il mio silenzio carico di sospetto: «A Satriano di lucania c’è la Madonna del coniglio. Ad Anglona la Madonna pastizzara, il pastizzo è un piatto tipico di Rotondella, un calzone con le interiora di capretto. Ma c’è anche la madonna del latte, la madonna delle galline, finanche la madonna della frittata. La Basilicata è questa».
Una ricetta contro l’autonomia
Per Federico Valicenti un piatto, più di tutti gli altri, rappresenta il Sud e la sua repellenza intrinseca ad ogni pensiero autonomista: la Ciambotta. «Non è altro che una grande forma di pane che diventa contenitore dei condimenti più disparati» spiega. «È diffuso in tutto il Sud, non esiste una ricetta unica: zucchine, melanzane, peperoni, dentro si mette quello che offre la terra o porta in dono l’ospite o il pellegrino di passaggio. Unico ingrediente immancabile, per molti, è l’uovo. Simbolo di rigenerazione cosmica, al suo interno sono riconoscibili quattro parti che ricordano i quattro elementi della natura: acqua, terra, aria e fuoco».
Il pane, simbolo ancestrale di legame alla terra, deve impregnarsi, inzupparsi dei sapori di tutto il mondo. Solo così potremo continuare a riconoscere quella terra come casa
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