Mai come in questa fase l’attributo “lineare” sconta una reputazione negativa, essendo associato a tagli che muovono in direzione orizzontale senza alcuna considerazione rispetto a ciò che viene decurtato (con la significativa eccezione dei costi della politica). Eppure la linearità può essere un valore, ad esempio se associata alla coerenza di una politica che decide di ridimensionare da una parte per investire da un’altra. Ci pensavo qualche giorno fa percorrendo la strada provinciale n. 20 del Lago di Cei, interamente ricostruita negli anni cinquanta grazie ai cantieri “Fanfani”, lavori di pubblica utilità che hanno consentito di creare occupazione e sviluppo anche a discapito della tecnologia. “L’hanno fatta a piccone e badile – raccontava mio padre – con pochissime ruspe e camion. Ma è stata fatta bene”. E oggi? Quale politica lineare si potrebbe proporre per ridare fiato all’economia, creare lavoro e più in generale un nuovo modello di sviluppo? Le ricette sono tante e disparate: dal ponte di Messina alla messa in sicurezza del territorio. Aggiungiamone un’altra, sottovalutata ma ampiamente attivabile a costi relativamente contenuti: devolvere beni immobiliari e proprietà a organizzazioni non profit affinché le rigenerino dal punto di vista strutturale e della funzionalità sociale. Sono i cosiddetti “community asset” di cui trattiamo nel numero di Communitas ora in libreria (credeteci anche se il sito non è aggiornato) e su cui si regge la pluricitata Big Society di Cameron che tanti adepti trova anche qui in Italia, in particolare nella compagine governativa. E’ una politica lineare perché coerente con i talenti del nostro territorio, ricco di strutture e beni di origine comunitaria che necessitano di una rinnovata mission sociale, basti pensare ai beni religiosi. Ed è una politica lineare perché potrebbe attivare risorse – economiche ed anche in kind – da parte di numerose associazioni, cooperative, imprese sociali in grado di intervenire per la gestione di questi processi di rigenerazione. Basti pensare, ad esempio, al volontariato e alle donazioni che la ristrutturazione di un bene legato a un reale bisogno di interesse collettivo potrebbe attrarre. Una combinazione virtuosa tra politiche keynesiana e di sussidiarietà. All’assordante silenzio della politica – non solo su questo tema invero – inizia a rispondere la società civile. Ultima notizia in ordine di tempo: l’accordo tra Legacoop e Legambiente per promuovere “cooperative di comunità”. Quale miglior oggetto sociale di queste imprese la ristrutturazione di asset comunitari, vero e proprio “tesoretto” disponibile sull’intero territorio nazionale? Certo fa un pò specie che il progetto sia realizzato da una centrale cooperativa che in alcuni settori ha sacrificato la dimensione comunitaria sull’altare delle economie di scala. In fondo questa poteva essere la prima, grande iniziativa della neonata Alleanza delle Cooperative Italiane. Ma questi sono, tutto sommato, dettagli che sbiadiscono di fronte dalla portata del progetto. I migliori auguri ai promotori dunque.
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