Testimonianze

Una nuova ricerca per la cura del diabete di tipo 1. «Ecco perché mi candido»

101 anni fa l’insulina non esisteva. Di diabete si moriva. La ricerca, fortunatamente, procede a gonfie vele. La notizia di questi ultimi giorni è l’avvio di un altro nuovo studio pionieristico: in Italia vi partecipa il centro specialistico dell’Irccs San Raffaele di Milano. Francesca Ulivi, malata di diabete di tipo 1 da molti anni e direttrice generale della Fondazione Italiana Diabete, è una delle pazienti che si candideranno alla ricerca. Qui ci racconta perché

di Sabina Pignataro

Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune, inguaribile e degenerativa. Ad oggi non si cura, ma si può gestire. La gestione è complicata e delicata. Si stima che ogni persona con diabete prenda circa una decisione ogni 28 minuti. Quanta insulina somministrare? Ho fatto uno spuntino, come dovrò adattare il pranzo? Cammino da più di un’ora: la glicemia sarà scesa troppo?  Sono agitato: aumento la dose? Ho il ciclo: cambio tutti i parametri?

101 anni fa l’insulina non esisteva. Di diabete si moriva. La ricerca, fortunatamente, procede a gonfie vele.

La notizia di questi ultimi giorni è l’avvio di un altro nuovo studio internazionale che coinvolge 12 siti di ricerca nel mondo, di cui cinque negli Stati Uniti, due in Canada e cinque in Europa tra cui il Centro di ricerca dell’Irccs San Raffaele di Milano (il Diabetes Research Institute).
Francesca Ulivi, malata di diabete di tipo 1 da molti anni  e direttrice generale della Fondazione Italiana Diabete  è una delle pazienti che si candideranno.

Dottoressa Ulivi, perché lo fa?

Perché è naturale farlo. Dopo essermi ammalata di diabete di tipo 1 a 40 anni, ho lasciato la mia carriera in televisione per dedicarmi completamente a comunicare la mia malattia e raccogliere fondi per la ricerca di una cura al diabete di tipo 1. La ricerca ha bisogno di tre cose: che la società conosca la malattia e sia consapevole del grande lavoro degli scienziati; che ci siano fondi per portare avanti le idee migliori; e che ci siano pazienti che si sottopongano ai trial. Io non sono ricercatore, non sono medico, e non intendo rinunciare alla speranza di guarire e non far ammalare più nessun bambino, per cui da giornalista e malata non mi resta che fare queste tre cose, se posso e quando posso anche tutte e tre.

Ogni persona con Diabete di Tipo 1 è un vero e proprio tesoro per la ricerca scientifica…

Solo le persone con diabete possono offrire alla ricerca la possibilità di sperimentare terapie o metodi innovativi. Le sperimentazioni cliniche cercano sempre dei volontari che possano partecipare. Se qualcuno volesse capire se ci sono ricerche in corso alle quali partecipare può scrivermi a: francesca.ulivi@fondazionediabete.org
Senza ricerca non c’è salute, non c’è cura e non c’è sviluppo. Senza le persone con diabete che in questi anni si sono sottoposte alla ricerca non saremmo arrivati a questo studio; senza le famiglie che si sono sottoposte agli screening, oggi non sapremmo nulla della patogenesi della malattia. Senza la prima famiglia che oltre 100 anni fa ha accettato di far iniettare l’insulina al proprio figlio morente, oggi non sopravviveremmo che qualche mese dopo l’esordio. Si, noi malati siamo un tesoro per la ricerca!

Non è la prima volta che presta il suo corpo alla ricerca scientifica. Ci spiega?

Ho partecipato a diversi trial clinici, di ogni genere. Andando spesso in aereo mi ero resa conto che i microinfusori che abbiamo addosso avevano dei comportamenti non controllabili in decollo e con il mio diabetologo abbiamo fatto uno studio in camera iperbarica all’ospedale di Niguarda, dimostrando sperimentalmente quello che tante persone con diabete notavano (ipoglicemie inaspettate). Poi ho partecipato ad uno studio che analizzava l’intestino delle persone con diabete, facendo prelevare un pezzetto di intestino durante una gastroscopia. Mi sono messa un po’ più in gioco partecipando allo studio Monorapa, sempre del Diabetes Research Institute del San Raffaele, in cui sostanzialmente dovevo prendere determinati farmaci tutti i giorni e sottopormi ad analisi dettagliate ogni mese.
Questo studio è diverso, perché è un Fase 1, ovvero serve per comprendere se l’impianto che contiene staminali che producono insulina è ben tollerato dal corpo. È uno di quelli che si chiama “first in human”, cioè viene fatto per la prima volta nell’uomo e si deve capire se il disegno scientifico è applicabile e sicuro per l’essere umano.

La sua storia di persona, e poi di persona con diabete è iniziata nel 2011. Ci potrebbe raccontare come è stato e cosa ha rappresentato per lei?

Il Diabete di Tipo 1, che rappresenta il 10% dei casi di diabete, può colpire persone di ogni età ma si presenta maggiormente nella fascia compresa tra 0 e 30 anni di età, con diversi picchi di incidenza: uno attorno ai 2 anni; uno tra i 5 e i 7; un altro tra i 12-13 anni, durante lo sviluppo puberale.
Io invece ero già grande. Lavoravo come giornalista da 25 anni, nel 2011 ho vinto il Premio giornalistico dedicato a Ilaria Alpi. Quando mi sono ammalata dirigevo il telegiornale di una tv nazionale e mi occupavo delle campagne di responsabilità sociale della media company in cui lavoravo per i canali tv di mezzo mondo.

La mia prospettiva di vita è cambiata con una certa velocità. Non mi ci è voluto molto per capire che il diabete di tipo 1 è una delle malattie meno conosciute e più confuse (con il diabete di tipo 2) e che, escludendo le famiglie che lo vivono, sono davvero molto poche le persone che capiscano cosa sia e come ti possa sconvolgere la vita. In pochi sanno che una persona con diabete di tipo 1 prende centinaia di decisioni vitali ogni giorno; che ha un pezzo del suo cervello costantemente concentrato a fare il pancreas, che l’insulina che ci iniettiamo non ci cura, ma ci tiene in vita; che il diabete di tipo 1 è l’unica malattia in cui il paziente decide in autonomia le dosi dell’ormone che lo fa vivere ; che il calcolo dipende da mille fattori e se lo sbagli rischi di andare in coma.


Davvero complicato…

Sto semplificando, perché è davvero complesso, ma alla sostanza la situazione è questa: l’insulina è l’ormone che ci tiene in vita, in una persona con diabete di tipo1 il pancreas non lo produce più e te lo devi iniettare. Quando come e quale insulina iniettare lo decidi tu malato sulla base di svariati fattori e tanti calcoli. Se sbagli rischi l’iperglicemia, che a lungo andare fa venire le complicanze, oppure l’ipoglicemia, che pure fa venire le complicanze e che ti può mandare in coma o addirittura causare la morte nel giro di pochi minuti.
Ho presto capito che la ricerca ha bisogno di fondi, che possano accelerarla e portare a buon fine quello su cui si studia da anni. Ho capito che la cosiddetta cura è difficile perché il diabete di tipo 1, come tante malattie autoimmuni è una malattia complessissima di cui non conosciamo completamente le cause e i fattori scatenanti.
A un certo punto mi son domandata se valesse la pena continuare con il lavoro a cui avevo dedicato la vita o se non fosse il caso di usare il mio tempo per accelerare la ricerca di una cura alla mia malattia.
La risposta è stata semplice, ora dirigo Fondazione Italiana Diabete che è l’unica fondazione Italiana completamente dedicata a sostenere le ricerche che ovunque nel mondo indaghino le cause della malattia e cerchino una cura successiva o preventiva.
Non potrei fare altro.

Qual è l’aspetto più difficile delle sue giornate oggi?

Due. Il primo è coniugare una vita abbastanza stressante con una malattia che richiede calma e concentrazione e magari vite più regolari.
Il secondo è che il diabete di tipo 1 permea completamente la mia vita: ce l’ho personalmente, mi adopero ogni giorno per la causa, sono in una community di persone con diabete, mio marito è un clinico e uno scienziato che si occupa di diabete di tipo1.
Noi persone con diabete diciamo sempre che la malattia è 24/7, che non ti puoi mai prendere una vacanza. Ecco io è come se ce la avessi al cubo, a volte è pesante.

Veniamo ora alla ricerca. In cosa consiste?

Lo studio prevede l’impianto chirurgico di dispositivi contenenti cellule producenti insulina differenziate da cellule staminali, non richiede l’utilizzo di farmaci immunosoppressori.
Possono candidarsi persone con età compresa tra i 18 e i 65 anni, con diabete di tipo 1 in trattamento insulinico da 5 anni o più. È necessario che il gruppo sanguigno sia A oppure  AB e che il soggetto abbia iniziato a usare il CGM per almeno 4 settimane prima dell’inizio dello screening.

Cosa vuol dire cura definitiva del diabete di tipo 1?

Due cose.  Il primo obiettivo è trovare una cura per le persone che sono già ammalate: correggere l’incapacità dell’organismo di controllare il glucosio ed eliminare la dipendenza dall’insulina. Come Fondazione Italiana Diabete finanziamo dunque la ricerca sulle terapie cellulari che possano sostituire o rigenerare la funzione di produzione dell’insulina (staminali, xenotrapianto, cellule modificate) e in passato abbiamo sostenuto la ricerca sui trapianti di isole pancreatiche, che ora sono pratica clinica.
La seconda è fare in modo che nessuno si ammali più; quindi, prevenire la malattia in chi ancora non è malato ovvero bloccare la progressione verso il diabete di tipo 1 nelle persone ad elevato rischio o, trovata ed eliminata la causa, bloccare in origine ogni possibile sviluppo della malattia. Quindi: capire la causa e trovare terapie che modifichino il corso naturale della malattia. Il nostro impegno è in tutti questi campi e tutti devono essere sostenuti, anche se il maggior interesse delle persone con diabete è nel primo obiettivo, tuttavia raggiungere il secondo, ovvero capire come bloccare la malattia o addirittura prevenirla avendo compreso la causa, può ugualmente essere fondamentale per chi la ha già, perché solo così le terapie sostitutive potranno funzionare appieno.

Sarebbe più appropriato parlare di cure, al plurale

Nell’ambito della ricerca della causa e della maniera di bloccare la malattia prima che esordisca clinicamente sono fondamentali gli screening e infatti siamo stati i promotori di una legge importante, la n.130 del 2023, che ha istituito lo screening pediatrico degli anticorpi del diabete e della celiachia. Grazie a questa legge potremmo prevenire in migliaia di bambini la chetoacidosi diabetica, curare i casi di celiachia non diagnosticata e dare una spinta importante alle ricerche per prevenire la malattia. Siamo il primo paese al mondo ad avere uno screening di popolazione per il diabete di tipo 1 e la celiachia, ci abbiamo lavorato tanto come Fondazione Italiana Diabete ed è un risultato di cui essere tutti fieri, come malati e come italiani.

La ricerca sulle beta cellule e il trapianto di isole pancreatiche è già realtà?

Sì, il trapianto, o meglio l’infusione di isole pancreatiche nel fegato è realtà dagli anni ‘90. Nelle persone che hanno il diabete di tipo 1, il sistema autoimmune distrugge le cellule beta del pancreas, quelle che producono insulina. La ricerca ha già trovato la maniera per sostituire queste cellule con i cosiddetti “trapianti di isole”, che per alcuni anni assicurano una completa o parziale insulino-indipendenza.  Tuttavia, solo un piccolo numero di persone con il diabete di tipo 1 ad oggi possono essere candidati a questo trapianto, perché bisogna sottoporsi a terapia immunosoppressiva (che si giustifica solo in caso di complicanze invalidanti) e perché le cellule a disposizione da trapiantare non sono sufficienti per tutti i malati, visto che vengono ottenute da pancreas di donatore deceduto.
Per questo lo studio in cui mi sono candidata è importante, perché è il secondo al mondo che utilizza cellule staminali producenti insulina, che eliminano il problema della reperibilità di isole pancreatiche ed è il primo al mondo a non utilizzare immunosoppressione, utilizzando questi “scaffold”, queste capsule nelle quali le cellule dovrebbero essere protette dall’attacco immune tipico dei trapianti e da quello autoimmune proprio delle persone con diabete, permettendo comunque all’insulina prodotta di uscire e di fare il suo lavoro prezioso e necessario alla vita.  
Se questo studio dovesse funzionare, e ci vorrà del tempo per capirlo, potrebbe segnare davvero una svolta e la speranza di una vita “libera” per tutte le persone che oggi hanno il diabete di tipo 1.

In apertura: Francesca Ulivi. Foto di Daniele Mascolo

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