Sicuramente il web aiuta. Attraverso i social network è infatti facile, e in qualche misura anche salvifico, scaricare le ansie di un momento pazzesco di incertezza e di paura collettiva. Ma i segnali di questi giorni sono davvero inquietanti. Sulla questione carceraria, sulla sorte dei migranti, sul ruolo della politica, sul senso della solidarietà umana e sociale, si abbattono folate di cattiveria urlata o taciuta.
La tendenza è frutto sicuramente avvelenato del protrarsi infinito di una crisi rispetto alla quale non sembra possibile vedere una reale speranza di uscita. Eppure dovremmo tutti interrogarci sul senso di questo avvitamento psicologico e sociale, su questa chiusura di porte e finestre. Siamo monadi impazzite e rissose, convinte di aver sempre ragione su ogni questione, specie se l’argomento non è conosciuto da vicino, e dunque è più facile sparare sentenze, o accodarsi alla grida carismatica di questo o quel guru, o sedicente tale, a destra, al centro, a sinistra.
Al di sopra dei marosi al momento resiste (forse) solo Papa Francesco, ma anche lui deve stare attento perché l’onda lunga della simpatia popolare potrebbe già essere in fase di rallentamento, specie quando si occupa con autentica compassione dei derelitti che muoiono a ridosso delle nostre coste. L’Italia non sta dando di sé una bella immagine, e io penso a quanti, in silenzio, stanno comunque lavorando per restare umani, per risolvere ogni giorno piccole e grandi ingiustizie, con quello spirito di servizio che appartiene al volontariato, e non solo.
C’è una visione autoritaria dell’ingiustizia che ognuno ritiene di subire quotidianamente, che mi inquieta e mi stupisce al tempo stesso. Non so da che parte dovremo ricominciare a costruire umanità. Ma così non ci siamo, e dobbiamo forse ragionare seriamente sul senso della nostra appartenenza a una comunità, sul valore della condivisione e dell’inclusione sociale. Non per buonismo, non per essere politicamente corretti. Semplicemente perché siamo esseri umani. E cittadini.
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