Può essere buona oppure cattiva la memoria. Può mutare e nel tempo peggiorare. Minuitur, si riduce, scrive Cicerone, che la definisce ars, arte, condensando in tre lettere la sua essenza. Come l’arte, la memoria chiede creatività e metodo, abbandono e disciplina, ispirazione e tecnica.
Tutte virtù che non la mettono al riparo dall’essere materia per cui e con cui noi si combatte, sempre. Nel grande, nello scrivere e tramandare la storia delle vicende umane. E nel piccolo del ritmo quotidiano di una vita al singolare: quante liste compiliamo per provare a non dimenticare? Quanti nomi perdiamo?
È tanto inaccettabile il pensiero di smarrire insieme a lei il capitale di un tempo felice, quanto è altrettanto mordente il desiderio di rimuovere ricordi di fatti o persone brutti che ci sono capitati. Come se svanendo la memoria avesse il potere di cancellare l’accaduto, di ripulirlo.
Come capita a Toni Webster, il protagonista de Il senso di una fine, di Julian Barnes: un signore anziano che si era nel tempo cucito addosso un’autobiografia edulcorata, che aveva censurato (dimenticato?) atti, parole, incontri vissuti, finché una piccola eredità che gli giunge inaspettata lo costringe a ricostruire il suo profilo autentico, recuperando contro voglia ricordi accantonati, uno dopo l’altro, fino a ricomporre un quadro di sé molto distante dal precedente, evidentemente troppo pesante da portare. Una lezione che lo costringe a rivedere i suoi criteri storiografici: non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori, fa dire Barnes ai suoi personaggi. È fatta più dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti. Perché la storia è quella certezza che prende consistenza là dove “le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione”.
La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione
J. Barnes
Se però dal passato improvvisamente qualche dettaglio torna, la superficie perfetta dell’edizione falsata si crepa.
Imperfezioni, inadeguatezze: di queste trame è fatta la memoria. E del resto, se è un’arte, non può essere perfetta, per fortuna.
È selettiva, non la governiamo coscientemente. Può essere una risorsa, quando si regge su certezze che offrono stabilità. Ma sa anche pungere. Qualcuno colloca fisicamente il punto in cui fa soffrire tra lo stomaco e lo sterno: cerchi un orecchino in un cassetto, e ti ritrovi in mano una lettera autografa scolorita dal tempo, un ritaglio ingiallito di giornale. Così lei piomba, con il volto di quella nostalgia alla quale sono stati dedicati volumi e inchieste: sa farci perdere la testa, nel senso proprio che ce la fa tenere voltata all’indietro, distrae dal presente che intanto scivola via. Perciò non si merita un culto particolare.
I greci avevano chiamato Mnemosune (memoria) la madre di tutte le Muse, e la identificavano con la capacità di tenere a mente, rammentare, quindi con un’abilità della ragione, della testa, in prima istanza.
Ma ai romani non bastava la sola parola memoria a coprire tutte le esigenze lessicali e le hanno accostato un’altra, che in Italiano è ricordo: re + cor, ritorno al cuore. Almeno nel gioco etimologico, dunque, l’arte del far memoria-ricordare non sarebbe solo una questione di pratica cerebrale, ma anche "cordiale".
Spopolano nella rete i tutorial per tenere allenata la memoria, ma forse occorrerebbe arrendersi e farci finalmente la pace: quel che è stato vissuto, è entrato in circolo nel nostro sangue, è pezzi di noi. Se qualcosa scappa via, amen.
Ha indossato giacche di lamé a serate glamour, ora queste giacciono nell’armadio inutilizzate, ma non si dispiace perché quei giorni li ha avuti e ora resta curiosa di vedere quel che verrà: così ha risposto con ironia una giornalista novantenne, Natalia Aspesi, in una recente intervista che la sollecitava sul tema del rimpianto. La corsa del tempo non brucia le esperienze. Queste ci sono state, punto. Mentre avanza l’attesa del futuro, fosse anche solo di scoprire con chi si cenerà stasera.
Alla fine pure la memoria ha bisogno di guardare avanti, come noi.
Anche se perde smalto (minuitur!), lei cammina e cambia direzione, con noi.
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