Non profit

Una mano sul cuore e una al portafoglio

L’ultimo rapporto dell’Iref parla chiaro: siamo diventati un popolo di volontari. Numeri che fanno impressione.

di Gabriella Meroni

Quante divisioni ha il volontariato? Tante. L?ennesima conferma arriva dall?ultimo rapporto sull?associazionismo sociale dell?Iref (il centro studi e ricerche delle Acli) che verrà presentato il prossimo 7 luglio a Roma, alla sede del Cnel. Una fotografia davvero impressionante dell?impegno sociale e civile degli italiani, di cui ?Vita? è un grado di anticiparvi qualche conclusione. Ecco le cifre: più di 5 milioni di volontari, impegnati mediamente 5 ore e mezza a settimana per un totale di quasi 1.200.000 ore (per produrne altrettante ci vorrebbero 750 mila lavoratori a tempo pieno), oltre 20 milioni di donatori (il 46 per cento della popolazione maggiorenne), 180 mila lire mediamente donate a testa, 2000 miliardi di ?gettito? per le associazioni. Sono numeri che fanno impressione, ma soprattutto suscitano parecchi interrogativi: se l?associazionismo è questo, come mai non riesce a incidere maggiormente nella nostra società? E perché il suo peso economico, pur rilevante, non è sufficientemente valorizzato? Come offrirgli la possibilità di un riconoscimento giuridico adeguato? Insomma, come renderlo più visibile? Cresce la fedeltà degli associati Questo, nel rapporto dell?Iref, non c?è scritto. Ma il direttore dell?istituto e curatore del testo, Andrea Bassi, sostiene di avere fatto la sua parte nell?evidenziare i mutamenti della galassia degli associati. «Il nostro rapporto, arrivato alla sesta edizione, ci dà un quadro completo dell?impegno sociale e civile degli italiani. E permette di coglierne alcune tendenze nuove: negli anni Novanta, ad esempio, si sono sviluppate sempre più le associazioni di tutela dei diritti dei cittadini, il cosiddetto volontariato civico. E nel complesso la fedeltà degli associati, a qualunque organizzazione, è cresciuta di ben dieci punti percentuali. Il che significa senza dubbio una maggiore consapevolezza del proprio ruolo». Chi non ha ancora consapevolezza della crescita delle associazioni, forse, è proprio chi con queste dovrebbe fare i conti, cioè lo Stato. È di questo parere il professor Giorgio Vittadini, docente di statistica e presidente della Compagnia delle Opere. «Non mi stupisco affatto delle dimensioni del fenomeno», dice. «Stupisce invece che lo si sia negato per anni. Si nega che il potere vero delle associazioni viene dalla gente. Faccio un esempio: molti sostengono che la gran parte dei finanziamenti al non profit arriva dagli enti pubblici. Non è vero: i patrimoni delle fondazioni e degli enti secolari vengono tutti dalla gente, c?è sempre stata questa tradizione italiana. Le donazioni, anzi, sarebbero anche di più se ci fosse un meccanismo fiscale più adeguato. Il fatto che molte realtà associative non riescano a emergere probabilmente è dovuto al fatto che ci sono alcune associazioni di regime che fanno rappresentanza per tutte le altre, impedendo loro di venire alla luce». Già. Si fa presto a dire associazioni. Ma chi sono in realtà questi enti, che possono spaziare dal gruppo degli ex partigiani, al circolo dei giovani poeti fino a organizzazioni nazionali come Telefono Azzurro o le stesse Acli? Se si apre il codice civile alla ricerca di una definizione giuridica, ci si imbatte nel testo del primo libro, scritto nel 1942, che agli articoli 11-42 definisce le ?persone giuridiche private?: associazioni, enti, fondazioni, comitati. Una normativa basata su controlli molto stretti alla nascita delle associazioni e durante la loro vita da parte dei vari ministeri, che ormai molti vorrebbero cambiare. Innanzitutto perché i controlli praticamente non ci sono più, cosa che ha portato alla sopravvivenza dei tanti, famigerati ?enti inutili?. «Da tempo si discute di una riforma per mettere ordine nel Terzo settore», conferma il professor Giulio Ponzanelli, ordinario di Diritto privato comparato università di Brescia. «Fino a questo momento, invece, le componenti del non profit hanno cercato di darsi una disciplina autonoma con varie leggi: normative quadro, di cornice, come la 266 sul volontariato o la legge sulle coop sociali, con cui però si rischia di perdere il centro, cioè il codice. Che purtroppo è ostile ai corpi intermedi, e quindi va riformato. Come? Diminuendo i controlli, pur senza eliminarli, perché sono il prezzo da pagare al favore tributario ottenuto con la legge 460. Il problema è che lo Stato ha legiferato prima a livello tributario che giuridico. È assurdo. Bisognava fare il contrario». Ma quante sono le associazioni? Anche la frammentarietà delle associazioni – sul loro esatto numero, tra l?altro, non ci sono certezze: c?è chi dice siano 80 mila, chi 100 mila – non giova alla loro visibilità. Sottraendo loro peso politico. Prova ne sia il fatto che anche il Cnel, che pure da anni concede il proprio patrocinio al rapporto dell?Iref, non riconosce tra i suoi membri, espressione della società, alcun rappresentante del Terzo settore. «Siamo molto attenti a questo mondo come parte viva della società italiana», precisa il presidente del Cnel, Giuseppe De Rita, «Ma offrirgli una rappresentanza è davvero complicato. Prima del naufragio della Bicamerale si era posto questo problema, e si affrontò la questione se il Cnel fosse la sede della rappresentanza sociale o delle categorie economiche sociali. Io credo che alla fine avrebbe prevalso la prima definizione, in cui sarebbe rientrato anche il Terzo settore. Ma rappresentato da chi? Ho la sensazione che in questo mondo variegato prevalga un forte individualismo. E poi cambia in continuazione, quindi aprirgli le porte è davvero un?impresa». Il fattore C, come comunità Se la rappresentanza politica non è ancora compiuta, dunque, presto potrebbe arrivare l?evidenza economica. Un elemento di certezza sul mondo dell?associazionismo, infatti, viene dal suo notevole peso economico. Un tema ormai oggetto di un serio dibattito tra gli economisti, che hanno perfino identificato con una formula – fattore C, come comunità – il benefico effetto sullo sviluppo economico di una società della presenza massiccia delle associazioni. «Non è un caso», osserva il professor Carlo Borzaga dell?università di Trento, «che l?esperienza associativa sia concentrata nelle aree dove è forte la piccola e media impresa. E la controprova è che creare sviluppo dove è assente una rete di associazioni è dura, come nel Mezzogiorno. L?associazionismo crea le condizioni per uno sviluppo economico, quindi migliora la società: tanto più è grande il capitale sociale tanto più è dinamica la società. Quindi incentivare le associazioni conviene anche dal punto di vista economico. Questo giustifica tra l?altro le agevolazioni fiscali, che mantengono in vita le associazioni e quindi migliorano l?economia. La 460 non è stata un regalo, dunque: anzi, è un modo per far sussistere un network che produce ricchezza». Ma c?è chi rema contro Ignorare i 5 milioni di volontari di cui parla il rapporto dell?Iref sarà sempre più difficile. Se non impossibile, come prevede il professor Giorgio Fiorentini, docente di Economia delle imprese non profit alla Bocconi di Milano. «Il Terzo settore avanza, anzi, in alcune sue parti si sta stabilizzando, consolidando, si stanno creando presupposti per lo sviluppo di vere e proprie aziende. Purtroppo ci sono forze che remano contro, come i legislatori che ritardano nel costituire organismi fondamentali, come l?authority. Mentre noi discutiamo le cose però andranno avanti, e un giorno ci troveremo con realtà concrete e ben strutturate, che pretenderanno il loro spazio. Mi chiedo fino a quando sarà possibile ignorare che il Terzo settore è parte del sistema economico italiano. Le cifre sono lì, e parlano da sole. Quali prove ci vogliono ancora?». ?


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