Comunicazione della diagnosi ai figli
Una malattia in famiglia? Parlare apertamente ai minori
Meglio ancora se insieme a psicologo e clinico e con l'uso di metafore e figure. Lo mostra uno studio di confronto tra l'esperienza delle unità di ematologia dell'ospedale San Gerardo di Monza da un lato e degli ospedali Niguarda e Policlinico di Milano e del San Matteo di Pavia dall'altro. A beneficiarne non sono solo i bambini, ma anche i genitori
Quando una malattia colpisce un genitore e la nuova diagnosi irrompe in famiglia, non parlarne con i figli nell’intento di metterli al riparo non è mai la strategia corretta. «Una comunicazione chiara, sincera e trasparente, da chiunque venga fatta, dai genitori, da uno psicologo o dallo stesso clinico che segue il genitore malato, è sempre meglio del non dire nel tentativo di non proteggere il figlio minore» spiega Beatrice Manghisi, ematologa dell’Irccs San Gerardo di Monza e prima autrice di uno studio di valutazione dell’impatto sul comportamento dei bambini della comunicazione della malattia ematologica di un genitore.
La ricercatrice spiega che la volontà del team di condurre questo studio è nata proprio per smentire le paure ancora molto diffuse di danneggiare i figli minori comunicando loro la malattia in modo aperto e sincero. «Il tacere e l’alludere sono invece all’origine di un ingigantimento dei timori del bambino, che non si può confrontare». Il lavoro ha confrontato l’esperienza di Monza, dove esiste un’iniziativa specifica di incontro tra ematologi, psicologi e l’intero nucleo familiare, con quelle di altre tre ematologie di pari dimensioni e volumi di pazienti: l’ospedale Niguarda di Milano, il Policlinico di Milano e il Policlinico San Matteo di Pavia.
Al San Gerardo i genitori, sia quello malato che quello sano, hanno risposto a questionari che esploravano i principali comportamenti dei bambini, come rendimento scolastico, appetito, modalità di sonno, attaccamento alle figure familiari e dialogo familiare, a uno/due mesi dalla diagnosi. Negli altri ospedali, invece, gli stessi questionari sono stati raccolti perlopiù nei soli genitori malati: per la mancanza delle risposte di quelli sani, una parte dell’analisi ha riguardato solo i questionari raccolti a Monza. Dal 2017 al 2021 sono stati arruolati 32 pazienti, 20 di Monza e 12 di altri ospedali e sono stati raccolti globalmente 84 questionari, per 54 bambini con un’età media di nove anni con papà o mamma ammalati in uguale proporzione.
Il confronto tra quattro ospedali
Oltre a un percorso di supporto psicologico per i figli minori dei pazienti per i quali si ritenga necessario, al San Gerardo, grazie al supporto dell’associazione Luce e Vita, dal 2009 è attivo il Progetto Emanuela, di cui è referente l’ematologa Lorenza Borin, che offre ai pazienti del reparto di Ematologia e ai loro familiari un supporto psicologico. I bambini possono andare in ospedale, visitare i genitori e al contempo parlare con ematologi e psicologi della situazione, in una stanza dedicata in ematologia, in presenza dei genitori, sia al momento della diagnosi sia in ogni eventuale tappa successiva di avanzamento della malattia o del trattamento.
Qui, l’ematologo spiega la malattia, utilizzando delle semplici metafore che fanno riferimento a erbacce da estirpare in un bel giardino (con i trattamenti) o a serre che proteggono dei bei fiori delicati (l’isolamento), con il supporto di materiali colorati, e lo psicologo facilita la formulazione delle domande che possono nascere nei bambini. La situazione degli altri ospedali è diversa: al Niguarda, alla famiglia può essere offerta una comunicazione di cui in genere si fa carico lo psicologo, quando c’è; negli altri due ospedali, il supporto viene fornito solo al paziente e la comunicazione ai figli è delegata ai genitori.
Lo studio
L’analisi delle risposte raccolte al San Gerardo, secondo entrambi i genitori, dopo la comunicazione della malattia, non si è verificato alcun peggioramento rilevante del rendimento scolastico, dell’appetito e del sonno. Non è stato segnalato alcun aumento rilevante di incubi, atteggiamenti solitari o domande sulla morte. È interessante notare che una porzione rilevante di genitori ha segnalato un aumento dell’attaccamento dei figli alle figure familiari, sia al genitore malato sia a quello sano. Inoltre, un terzo dei genitori malati e due terzi dei genitori sani hanno segnalato una difficoltà nella separazione dei bambini dalle principali figure familiari. In generale, c’è stata concordanza tra le risposte del genitore ospedalizzato e l’altro, indice di una presenza genitoriale che non si è interrotta con l’ospedalizzazione anche grazie alla possibilità di visite.
«La difficoltà a separarsi dai genitori è stata maggiore nei tre ospedali in cui non c’è stata una comunicazione così strutturata come quella resa possibile dal progetto Emanuela, indice di una maggior difficoltà dei figli ad accettare la separazione e l’ospedalizzazione del genitore» spiega l’ematologa. La maggior parte delle voci del questionario che esploravano il comportamento dei bambini, tuttavia, non hanno evidenziato alcuna differenza rilevante tra i centri. Ad eccezione del fatto che, dal confronto tra le risposte dei genitori malato di Monza rispetto a quelle degli altri ospedali, emerge che «i figli dei primi tendevano a parlare più spesso della malattia del genitore in un dialogo aperto e ad esprimere apertamente la propria preoccupazione» spiega la ricercatrice «Non è un indice di maggior carico di preoccupazione, ma di un dialogo più aperto».
A beneficiarne anche i genitori
L’incontro con il clinico e lo psicologo non avvantaggia solo i figli, «creando un terreno comune sul quale si costruirà poi un dialogo quotidiano», ma anche i genitori: «Rafforza l’alleanza terapeutica tra genitore ed ematologo» spiega Manghisi. «Ma dai questionari emerge anche che i pazienti stessi comprendono meglio la propria situazione dalla comunicazione per metafore rivolta ai figli. Il momento della diagnosi è carico d’ansia, spesso non vengono subito tutte le domande e assistere a una comunicazione rivolta ad altri, in questo caso ai figli, è di aiuto». Pur concordando tutti sul fatto che una comunicazione chiara e trasparente sia necessaria per i figli, solo chi aveva vissuto l’esperienza del progetto Emanuela riteneva opportuna la presenza del clinico. «Le opinioni dei genitori dipendono chiaramente dal tipo di supporto che è stato offerto loro» commenta Manghisi.
Formare alla comunicazione
«La nostra esperienza con il progetto Emanuela ci convince fortemente del ruolo chiave che il medico ematologo può svolgere nella comunicazione con i figli dei pazienti» conclude il prof. Carlo Gambacorti Passerini, direttore della Struttura Complessa Ematologia adulti del San Gerardo. «I pazienti percepiscono le competenze mediche come complementari a quelle genitoriali, e identificano nell’ematologo un supporto indispensabile nella comunicazione, una figura in grado di prendersi cura anche degli aspetti familiari e relazionali». Peccato manchi ancora una formazione specifica in comunicazione medico-paziente obbligatoria già durante il corso di laurea in medicina.
Foto di apertura di Sebastian Pandelache su Unsplash.
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