Mondo

Una macchina che non si ferma davanti a nulla

Marco Revelli commenta la tragedia della Val di Susa

di Lorenzo Alvaro

Marco Revelli, sociologo e storico, interviene, su Vita, sul caso di Luca Abbà, l’attivista che è rimasto folgorato mentre cercava di opporsi, scalando un traliccio dell’alta tensione, alle ruspe del Tav che scavavano nel suo terreno. Una posizione, quella di Revelli, che scardina la logica delle parti e del muro contro muro, e si concentra sulla “macchina burocratica che non si ferma davanti a nulla”.  

Professore, ha parlato di una macchina che non si ferma davanti a nulla. A cosa si riferiva?
Mi ha colpito moltissimo la sequenza filmata così come appare dal filmato della polizia. Perché è verissimo che Luca Abbà non è stato gettato a terra o colpito o spinto fisicamente dai poliziotti. Ma la successione degli eventi. è tremenda. Lui che, con una scelta non violenta, si arrampica sul traliccio invocando che si fermino i lavori, o quantomeno che rallentino. I rocciatori delle forze dell’ordine che invece cominciano a salire per raggiungerlo. Imperterriti e indifferenti anche alle minacce di suicidio. Finché non accade la tragedia. Luca Abbà cade da più di dieci metri, e nonostante questo, i lavori sulla sua terra continuano. Le ruspe persistono a fare quello per cui erano state inviate. Con questa sorta di macchina burocratica cieca e implacabile. Che è un po’ la logica che ha guidato tutta la vicenda del Tav in Val di Susa. Decisioni prese da strutture tecnocratiche che non vengono minimamente scalfite da quello che accade sul territorio. A me questo ha sollecitato una riflessione sulla non violenza.

Sulla non violenza?
Si perché nel comportamento di quel attivista del No Tav, ma soprattutto di quel valsusino, c’era una forte componente non violenta.

E quale riflessione ha maturato?
Un’azione non violenta presuppone, per giustificarsi, che ci sia un rapporto tra chi la pone in atto e colui nei confronti del quale è diretta. E cioè che l’altra parte ad un certo punto si fermi di fronte ad un pericolo estremo come quello che stava correndo Abbà. E qui invece non è accaduto. Trasferendoci in un contesto totalmente diverso, è evidente che le tecniche gandiane della non violenza hanno potuto aver successo perché gli inglesi, pur essendo ferocemente colonialisti, avevano dei limiti oltre i quali non si potevano spingere. Se questo limite non esiste, se le macchine organizzative continuano a tritare nel tentativo di giungere allo scopo che si propongono, saltano tutti i rapporti.

E invece stiamo assitendo al solito muro contro muro ideologico…
Si è così purtroppo. Dopo questa tragedia si è generato, soprattutto sui media, qualcosa che è anche peggio. Un gioco a disprezzare la vittima, a spogliarla della sua dignità. Una catastrofica caduta di responsabilità umana. Un giornalismo che è uscito da ogni limite, come il sondaggio di Libero che chiedeva se Abbà se lo fosse meritato. Questo abbandono del rispetto, non solo delle ragioni dell’altro, ma dell’altro in quanto persona. La sua trasformazione in bersaglio. Questo sport in cui lo scopo è alzare il tiro della denigrazione, ad opera per altro di specialisti del settore, è qualcosa che distrugge il nostro spazio pubblico, il concetto dell’opinione pubblica, è l’equivalente dell’avvelenamento dei pozzi nel medioevo. Crea una rottura della possibilità di condurre un dialogo nel quale parti anche molto distanti condividono tuttavia il rispetto di un nucleo comune di dignità delle persone.

Dialogo che invece, dai filmati disponibili, è stato cercato da quel ragazzo che piangendo cerca conforto nel poliziotto che lo sorveglia. L’ha visto?
Mi ha commosso. Era la ricerca proprio di quella comunanza umana, che al di là delle divise e dei fronti opposti, permette agli uomini di mettersi in contatto. Quel giovane piangeva, perché c’era per terra un amico agonizzante. E dentro quel cerchio di emozione cercava di toccare una corda interiore dell’altro, del poliziotto che aveva di fronte. Con un connotato pasoliniano, sapendo che l’altro era, come diceva Pier Paolo “un figlio del popolo” anche lui. Forse più vicino al contadino caduto dal traliccio che al suo capo, Manganelli, che coi suoi 680 mila euro all’anno, appartiene ad un altro pianeta. Cercava questa comunicazione orizzontale che io credo sia la risorsa salvifica dei popoli.
(Qui il video. Dal minuto 2 l’intervento del giovane)


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