Volontariato

Una lezione attuale in un Paese inattuale

di Pasquale Pugliese

Aldo Capitini a 45 anni dalla morte


Siamo talmente immersi in una cultura bellicista tornata ad essere vischiosamente dominante al punto che – dopo decenni di guerre chiamate “missioni di pace” – digeriamo anche l’ossimoro di una missione “umanitaria”, in risposta alla tragedia infinita dei profughi annegati nel Mediterraneo, affidata alle…cannoniere. Al massimo se ne analizza la composizione dei costi, non se ne mette in discussione la contraddizione concettuale ne l’impossibilità operativa. E’ come se, in merito alle questioni cruciali dello stare-al-mondo, fosse ormai totalmente espunto dal discorso pubblico ogni pensiero critico, visione differente, ipotesi alternativa. La delega della politica alla (im)potenza delle armi è totale. Anche il mondo intellettuale appare assente, incapace di articolare pensieri e parole intelligenti. Cioè capaci di leggere all’interno, oltre la retorica mediatica.

E’ dunque il caso di ricordare ancora la lezione – per lo più disertata dagli italiani – dell’intellettuale che ha dato il maggior contributo alla fondazione della critica più radicale alla filiera della violenza – culturale, religiosa, strutturale, armata – ed a costruirne i presupposti per il superamento: Aldo Capitini, a 45 anni dalla morte avvenuta il 19 ottobre del 1968, uno dei maggiori intellettuali “militanti” ed organizzatori sociali del ’900 italiano. Se, come scriveva nel 1967 nel libro Le tecniche della nonviolenza, “la nonviolenza è affidata ad un metodo che è aperto e sperimentale” la sua esperienza intellettuale e politica ha incarnato perfettamente questo ideale: apertura e sperimentazione sono stati il suo metodo di lavoro. La fondazione filosofica della nonviolenza il suo progetto culturale, orientato alla trasformazione sociale.

Capitini, ragazzo del ’99 dell’800, conosciuto dal grande pubblico per aver ideato la Marcia della Pace da Perugia, sua città natale, ad Assisi (della quale nel 2011 si è svolta l’edizione del cinquantesimo anniversario), ha attraversato intensamente molte stagioni di impegno “attraverso due terzi di secolo” (Capitini): dell’antifascismo etico alla ricostruzione civile e politica post-bellica, dall’impegno per la scuola pubblica alla lotta per l’obiezione di coscienza, dalla costruzione di un organizzato Movimento Nonviolento alla teorizzazione dell’omnicrazia come necessaria fase evolutiva della democrazia. Pedagogia, filosofia e religione furono ulteriori campi della sua elaborazione critica fondata su un’idea di liberazione complessiva dell’umano. Capitini è stato sempre in anticipo sui suoi tempi: ha promosso una profetica prospettiva liberalsocialista, ancora sotto la dittatura fascista, immaginando “due rivoluzioni invece di una, massimo di socialismo nel massimo di libertà”; ha fondato i “Centri di orientamento sociale” per la formazione alla democrazia partecipata nei territori dell’Italia liberata, quando l’altra metà era ancora occupata dai nazisti; ha promosso in Italia il movimento per la pace come soggetto autonomo dalle logiche di schieramento della guerra fredda, a pochi mesi dalla costruzione del muro di Berlino.

Aldo Capitini ha elaborato un “pensiero disarmato” (Catarci) e disarmante, sul piano culturale e politico – prima ancora che militare – attraverso la pubblicazione di decine di volumi, i densi epistolari (alcuni da poco pubblicati) con alcuni degli intellettuali più liberi dalle chiese del tempo (da Edmondo Marcucci a Guido Calogero, da Danilo Dolci a Norberto Bobbio), fondando due riviste il “Potere di tutti” e “Azione nonviolenta”, delle quali la seconda è ancora viva e vegeta. Il punto centrale della prospettiva trasformatrice capitiniana è decisamente radicale, cioè va alla radice delle questioni: “il rifiuto della guerra e della sua preparazione è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso.” La mancata assunzione di questo elemento fondante rende spuntate le armi del cambiamento, depotenziando le possibilità riformatrici tanto dell riformismo che del massimalismo. “Si sa che cosa significa, oggi specialmente, – scriveva a poche settimane dalla morte – la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso.” Non a caso, a quasi mezzo secolo di distanza, l’Italia – governata congiuntamente da sedicenti eredi del socialismo e del liberalismo – ha il primato in Europa per disoccupazione giovanile, analfabetismo, corruzione, mafie e, contemporaneamente, è tra le prime dieci potenze mondiali per spesa pubblica militare e tra le prime cinque per commercio delle armi.

Mentre per pattugliare il Mediterraneo attraversato dalle carrette del mare, cariche di profughi che fuggono dalle guerre (spesso combattute con le nostre armi), il governo ha deciso di potenziare proprio gli strumenti di guerra – anziché cancellare la legislazione razzista, consentire canali di immigrazione regolare, immaginare corridoi umanitari – Aldo Capitini nella sua ultima “lettera di religione”, datata 6 ottobre 1968, così scriveva: “Le frontiere vanno superate, e la parola “straniero” è da considerare come appartenente al passato. Ogni comunità vive nell’orizzonte di tutti, e perciò non è troppo grande, ed è collegata con le altre federativamente. Ma se vi sono spostamenti di genti, esse non sono da sterminare, ma da accogliere, tenendo pronte strutture e provvedimenti che rendano possibile questa apertura”.

Man mano che ci allontaniamo nel tempo dalla sua lezione, Aldo Capitini ci appare sempre più attuale. Mentre il nostro Paese ci appare – ed è – del tutto inattuale.

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