Famiglia
Una famiglia grande grande
Non sono affidatari tradizionali, né comunità gestite da educatori professionali: sono la terza via nel mondo dellaccoglienza. Coppie che hanno scelto di vivere a porte aperte
Qualcuna si è anonimamente insediata in condominio. Altre si sono raggruppate dando vita a comunità familiari che all?esterno si presentano come cascine o ville ristrutturate, immerse nel verde. Altre ancora hanno optato per la via più estrema, in stile ?comune? anni 70, dove si condivide tutto: beni, soldi, spazi, a volte persino il lavoro.
Sono le famiglie ?a porte aperte?, quelle che hanno superato di misura l?esperienza dell?affido di un minore e sono arrivate a un esperimento più radicale: la casa famiglia.
Diversa dalla comunità-alloggio, dal gruppo appartamento o dalla comunità educativa d?accoglienza, dove le figure di riferimento sono operatori professionali (educatori e psicologi) non residenti, che si turnano durante la giornata. Diversa anche dalla famiglia affidataria, perché qui il marito e la moglie hanno fatto una scelta più radicale: «Premesso che ogni modalità d?accoglienza ha la sua piena dignità, questa è un?esperienza completamente alternativa», spiega Mario Dupuis, responsabile di una casa-famiglia padovana della Federazione opere accoglienza minori (www.foamonline.org). «è una famiglia che concepisce le proprie mura in modo diverso, che contempla la possibilità di convivere con altre famiglie, di innestare sull?accoglienza un progetto di lavoro. In questo modo, essa diventa un vero e proprio soggetto sociale».
Accoglienza, vita, lavoro
La coppia che prende questa direzione «ha scoperto che nell?accoglienza può trovare una realizzazione profonda», aggiunge Walter Martini, responsabile del servizio minori e affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII, una grande realtà, unita da un forte collante vocazionale, che conta 169 case-famiglia per 630 minori accolti (www.apg23.org). «è una scelta netta, che nasce sempre gradualmente», prosegue Martini. «Nessuno parte da zero e dice: ?Voglio diventare casa famiglia?. Si comincia con varie esperienze di volontariato, missioni all?estero, con la condivisione della quotidianità con altre famiglie affidatarie e poi? si scopre la voglia di spendere le proprie capacità genitoriali aprendosi completamente. Si scopre che l?accoglienza gratifica più del lavoro e che dà comunque modo di poter vivere dignitosamente. Non ci si arricchisce di certo, con una casa famiglia, ma di certo si vive e si è felici».
Nessuna etichetta
Di fatto, non è una tipologia giuridicamente inquadrata in modo omogeneo. Ogni realtà locale ha una gestione diversa di queste famiglie ?aperte?: l?uso della casa e i rapporti con i servizi le fanno rientrare, in genere, tra le ?strutture d?accoglienza?. Un?ingessatura spesso scomoda, «perché la standardizzazione delle leggi finisce per appiattire la nostra specificità», rileva Martini. Si valorizza la presenza di un supervisore o il titolo professionale, insomma, dimenticando che una famiglia ha una particolarità tutta sua. «Rispetto a una comunità di accoglienza non c?è turn over delle figure di riferimento, ad esempio, perché ci siamo sempre noi due, che abbiamo scelto di vivere così», sottolinea Claudio Barbieri, che con sua moglie Rossella Sacco ha una casa famiglia nel quartiere Giambellino di Milano (vedi box). «Non abbiamo nemmeno l?urgenza di ?coprire? tutti i posti: valutiamo con attenzione il profilo del minore da accogliere e tentiamo un pre-inserimento per vedere se si inserisce serenamente. Nelle comunità i posti vanno riempiti comunque, perché i costi di mantenimento della struttura impongono di incassare il maggior numero possibile di rette».
Anche su questo fronte, la casa famiglia si allontana dal modello comunità educativa. In genere, la retta proposta dalla coppia varia da caso a caso, tiene conto delle esigenze di assistenza del minore (ad esempio, la psicoterapia), ed è comunque inferiore della metà o di tre quarti rispetto alla retta giornaliera della comunità (per il fatto che le figure professionali da stipendiare spesso non ci sono, o sono limitate).
Questo vale per le esperienze più strutturate in alcune regioni del Nord. Perché c?è anche chi, in Italia, è casa famiglia senza avere la sicurezza delle rette: «Le nostre ricevono il rimborso come famiglie affidatarie, circa 300 euro al mese. Spesso si tratta di gruppi di fratelli o di bambini disabili, perciò cerchiamo di sostenerle economicamente», spiega Mario Nasone, fondatore del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria (agaperc@libero.it). Grazie a un?iniziativa di raccolta fondi promossa dall?Associazione Amici dei bambini (www.aibi.it) con il sostegno di Sma Auchan, presto Agape potrà attivare un Centro comunitario per i servizi alla famiglia.
Associazioni o cooperative
Proprio per ovviare al problema economico, oltre alla solidarietà della rete di associazioni ?amiche?, molte case famiglia si danno la veste giuridica di cooperativa. In questo modo, a una parte ?amministrativa? spetta il compito di tenere rapporti con i servizi sociali e il tribunale, così come l?onere delle spese di acquisto, arredamento e ristrutturazione degli edifici di residenza.
Le coppie ?affidatarie? socie della cooperativa o legate all?associazione, invece, generalmente vengono ospitate in comodato d?uso gratuito, si sobbarcano bollette e consumi privati. è successo a Silvia e Giuseppe Dulfini, che a Roma, nella zona di Pineta Sacchetti, hanno ricevuto in comodato da una comunità religiosa una grande casa e nel 1993 (dopo 17 anni di matrimonio, 4 figli e 11 esperienze di accoglienza) hanno aperto Casa Betania. Una ?centrale? d?accoglienza in cui sono passate, in questi anni, oltre 240 persone tra mamme e bambini. Per l?accreditamento, il Comune di Roma ha di recente suddiviso le comunità di accoglienza in due fasce. «Ci troviamo nella fascia A, quella con i criteri più alti, ma non sempre le municipalità hanno il budget per coprire la retta corrispondente», spiega Silvia Dulfini. «Noi, comunque, non abbiamo mai voluto fare convenzioni esclusive, perché riteniamo giusto poter tenere sempre la nostra porta aperta a chi viene a bussare e si trova in situazioni difficili: circa il 20% dei nostri ospiti è accolto a spese nostre».
Sono tanti i modelli che in Italia sempre più spesso innescano la voglia di mettersi alla prova, di tentare la stessa strada o percorsi analoghi. Come la rete dell?associazione Famiglie per l?accoglienza (www.famiglieperaccoglienza.it), che conta 3.500 soci in Italia, di cui il 50% concentrato nelle province lombarde: «Ci arrivano adozioni, affidi, ragazze madri, persone venute in città per assistere i parenti malati», spiega la presidente lombarda, Graziella Faleschini. «C?è molto interesse verso il modello della casa famiglia», conferma Mario Dupuis. «Ma per realizzarla ci vuole anche una componente di ?vocazione?: si tratta di ripensare completamente la propria vita, la casa, il lavoro. è un percorso creativo e faticoso, con modalità così uniche che la legislazione non riesce a etichettare. Se non, forse, prendere atto dei suoi risultati e imparare ad averne fiducia».
Identikit di una casa a porte aperte
Casa
Non è necessario disporre di una struttura abitativa particolare, basta una normale abitazione civile. Però bisogna ottenere dall?amministrazione locale un?autorizzazione al funzionamento, perciò la casa deve avere determinate caratteristiche (impianti elettrici e del gas a norma; non più di due letti per camera. In alcune normative locali, o a seconda dei casi, anche ascensori e locali accessibili ai disabili).
Profilo della coppia
In genere è una coppia sposata. Uno o entrambi i coniugi non lavorano e il budget familiare quadra attraverso le rette di ciascun minore accolto. Spesso la coppia fa parte di un?associazione o crea una cooperativa (per la contabilità con l?ente viene aperta una partita Iva). Non sono richieste qualifiche da educatori, è però possibile che la normativa regionale imponga una collaborazione con tali figure.
Numero di accoglienze
Da due fino a sei minori (è il limite massimo disposto in molte regioni).
Accreditamento
Dopo aver ottenuto l?autorizzazione al funzionamento per la casa, in alcune regioni è necessario richiedere anche l?accreditamento all?ente locale a operare come casa famiglia (in Veneto, però, ad esempio non è richiesto). In questo caso, avere collegamenti con associazioni o cooperative costituisce una facilitazione nel rapporto con l?ente.
Rette
A seconda del profilo e del progetto educativo del minore, è la casa famiglia a proporre una retta. Di norma, questa è sensibilmente più bassa rispetto alla retta di una comunità educativa di accoglienza (che è costituita di operatori stipendiati). Se quest’ultima ha rette di 160-180 euro al giorno per ciascun minore, la casa famiglia di norma richiede un quarto di questa cifra (40-60 euro al giorno)
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