Torno da una decina di giorni di vacanza e trovo in Italia un dibattito molto articolato sul fenomeno dell’estate, l’Icebucket challenge, insomma la secchiata di acqua gelata per testimoniare a favore della raccolta fondi per la ricerca sulla Sla. Ero in Francia, dove ho visto sull’argomento solo qualche breve servizio di cronaca nei telegiornali, di taglio piuttosto neutro, senza enfasi di tipo politico. Non mi pare che nessun leader francese si sia dedicato in favore di telecamera all’esercizio della secchiata benefica, ma potrei sbagliarmi. Resta il fatto che in Italia la questione assume, ancora una volta, un taglio quasi ideologico, che mi pare del tutto fuorviante. Il tema è invece squisitamente mediatico, e tecnico, dal punto di vista delle prospettive del fund raising, e merita, fra un po’ di tempo, una riflessione accurata e non legata solo al risultato di questo primo successone mondiale, come nota giustamente Gabriella Meroni qui su Vita.it .
Personalmente ho trovato molto interessante e convincente l’analisi di Antonio Giuseppe Malafarina nel blog InVisibili di Corriere.it , ma anche la visione concreta e sostanzialmente positiva di Marco Piazza nel medesimo blog. Io non ho potuto sottopormi alla secchiata, che pure mi era stata proposta sotto forma di possibile “nomination”, perché la mia bronchite cronica penso ne avrebbe avuto un colpo decisivo. Certo, il sacrificio in diretta youtube in favore della ricerca potrebbe essere un bel modo di terminare l’esperienza terrena, ma perdonatemi se ho preferito, per il momento, soprassedere.
La questione, in verità, è abbastanza complessa. Innanzitutto è evidente che c’è un bisogno quasi disperato di trovare nuove ed efficaci forme di raccolta fondi, per il semplice e buon motivo che di fondi ce n’è un gran bisogno, visto il calo irreversibile dei finanziamenti pubblici e delle sponsorizzazioni (ammesso che ci sia mai stato un momento magico…). Le forme spettacolari come quella ideata negli Stati Uniti e propagatasi in modo virale grazie ai social network si adattano evidentemente a iniziative destinate ad aiutare cause emotivamente impattanti, come in questo caso la ricerca per sconfiggere la sclerosi laterale amiotrofica. Difficile immaginare un effetto analogo, anche a parità di testimonial, per una raccolta fondi destinata a sostenere situazioni meno condivise, o meno trasversali. Secchi d’acqua per rimpinguare il fondo nazionale per la non autosufficienza? Corsa sui carboni ardenti per finanziare la Vita Indipendente? Tuffo nelle acque gelate del mare invernale per aiutare le famiglie dei migranti? Che cosa mai potrà essere escogitato, da qui in avanti, puntando all’effetto emulazione e ripetizione? Non oso pensarlo.
Credo piuttosto che sia necessaria una riflessione etica seria, una sorta di nuovo codice applicato al web, soprattutto per educare i donatori a distinguere al volo le buone cause dai tentativi, che sicuramente fioriranno, di estorsione di denaro sotto forma di video dagli effetti subliminali. Nel web c’è davvero di tutto, e non sono soltanto le brave persone a dedicarsi ai social network. Senza demonizzare le nuove esperienze, ma trattandole con attenzione e rispetto per le persone alle quali si rivolgono: è questo il compito che ci attende, anche come comunicatori. Se c’è una nuova sfida, è quella della capacità di rendere consapevoli i donatori avvicinandoli alla causa per la quale si sono impegnati, magari con un gesto in buona misura esibizionistico. Riuscire a far diventare i donatori dei potenziali volontari sarebbe il passaggio ulteriore. Ma c’è tanto da lavorare, e forse anche da ripensare, nel nostro mondo.
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