Cultura

Una cittadinanza digitale per uscire dalle prigioni del web

Gli algoritmi del social network si sono dimostrati in grado di isolare l'utente in una sorta di prigione informativa. Cittadini digitali sotto sequestro. Per ribaltare lo schema occorre riappropriarsi della leva di comando: sono gli utenti i produttori dei contenuti per altri utenti e del valore economico per i proprietari della piattaforma. Se Facebook fosse una cooperativa di utenti dovrebbe dotarsi non solo di un governo democratico, ma anche di un sistema di controllo sulla democraticità del governo

di Giuseppe Guerini, Samuele Bozzoni e Simone Caroli

Ogni giorno produciamo, consapevolmente e non, una immensa ricchezza che cediamo gratuitamente a persone molto più ricche di noi. Sono i nostri dati, sono le informazioni che generiamo sulla rete scrivendo, postando, scaricando, o semplicemente visitando siti internet e accettando i famosi “cookie” che ci vengono proposti.

Il caso Cambridge Analytica ha solo acceso i riflettori sul fenomeno. In realtà, il valore (o il disvalore) della quotidiana attività degli utenti della rete era noto già da tempo. Nel 2014, Facebook, in collaborazione con il centro di ricerca della rivista Proceedings of the Natural Academy of Sciences (PNAS) aveva sperimentato su un campione di ignari utenti gli effetti provocati su di loro da notizie negative generate da altri utenti. Nel 2015 invece Gurvan Kristanadjaja, giornalista di Rue89, fingendosi interessato ad aderire al gruppo Stato Islamico (ISIS) ed iniziò a frequentare, sotto falso profilo, solo pagine e gruppi Facebook di ispirazione filo-ISIS. Il risultato, in entrambi gli esperimenti, era stato, per sommi capi, lo stesso: l'utente aveva iniziato a chiudersi in una bolla. Una bolla di tristezza, nel primo caso, e di indottrinamento nel secondo. Gli algoritmi del social network, pilotati intenzionalmente dai ricercatori o gestiti automaticamente dal software, si sono dimostrati in grado di isolare l'utente in una sorta di prigione informativa. Cittadini digitali sotto sequestro. Il caso Cambridge Analytica ha solo completato l'ultimo passaggio e ci ha messo davanti all’evidenza. È in atto una colossale raccolta pubblica di informazioni che possono essere vendute per scopi privati e innocui, come il marketing, ma anche per usi pubblici e “politici”, come abbiamo infatti potuto osservare.

Milioni di persone in Italia, e miliardi nel mondo, hanno una seconda vita, una vita informatica e digitale. Come cittadini del villaggio iperconnesso, le persone del terzo millennio danno il proprio contributo al sistema arricchendolo, minuto dopo minuto, di informazioni: parole, immagini, numeri, studi scienza e fotografie, arte e musica; dati, bit agli occhi delle miriadi di computer che permettono tutto questo.

Uno studio di Cisco calcola che il traffico di dati su internet nel 2021 sarà equivalente a 127 volte il volume dell’intera internet dalla sua comparsa al 2005 e che sempre nel 2021 il traffico per utente sarà triplicato rispetto allo stesso valore del 2016: da 10 a 30 GB pro capite.

Non è un mistero che i dati degli utenti siano una miniera d'oro per chi li sa raccogliere e sfruttare. Lo sanno bene le società che gestiscono i social media. I social media sono infatti piattaforme reticolari, dove ogni nodo della rete genera connessioni e quindi altri nodi. Più utenti frequentano la piattaforma, più altri utenti saranno interessati a partecipare. Ogni utente della social-sfera, quindi, è una ricchezza per la social-sfera stessa, perché non solo è una sua parte, ma “funziona” anche da calamita per altre parti.

Come si arriva, però, alla ricchezza in termini economici? Suonerà riduttivo, ma Twitter e Facebook non sono società così avveniristiche. Microsoft ha praticamente inventato e venduto alle masse un prodotto che quasi non c'era: un sistema operativo. Apple, la società amica-nemica, ha portato il lusso nell'hardware creando strumenti tecnologici che in verità sono “oggetti di desiderio” con una diffusione quasi di massa. Amazon del resto assomiglia molto ad un gigantesco “Catalogo VestroPostalMarket”. I social network sono più banali; vivono di pubblicità, come un canale televisivo (privato) qualsiasi. «Senator, we run ads», (senatore, abbiamo la pubblicità), è stata l’iconica risposta di Mark Zukerberg alla domanda del senatore Orrin Hatch sulla fonte di guadagni di un servizio che rimane gratuito. E se ci sono le pubblicità, allora più vasto è il pubblico, più è prezioso lo spazio pubblicitario. Il valore aggiunto da chi governa i social network è la possibilità di profilare l'utenza e indirizzare il messaggio pubblicitario verso il pubblico ritenuto più sensibile.

Gli utenti sono i produttori dei contenuti per altri utenti e del valore economico per i proprietari della piattaforma. Un’attività reciproca che genera economia. Perché escludere, allora, una potenzialità mutualistica e una possibile conversione alla reciprocità di questi potenti mezzi? ervirebbe da un lato un’azione diffusa di educazione alla consapevolezza sull’identità digitale e sul potere dell’aggregazione, dall’altro un’azione di regolazione pubblica che ristabilisca un ordine di priorità nell’economia digitale. Se ne sta rendendo conto (finalmente) anche l’Unione Europea che sia sul piano delle regole fiscali, sia su quello delle modalità di funzionamento dei giganti del digitale, sta mettendo in campo uno sforzo di regolazione tanto complesso quanto necessario.

«Senator, we run ads», (senatore, abbiamo la pubblicità), è stata l’iconica risposta di Mark Zukerberg alla domanda del senatore Orrin Hatch sulla fonte di guadagni di un servizio che rimane gratuito

Che si tratti di una raccolta di dati neutra, come quelle indirizzate al consumo di un determinato prodotto, oppure di una profilazione moralmente più problematica, come quelle usate per influenzare il voto di cittadini esasperati, questa perenne macchina di estrazione inizia a mostrare i suoi limiti di legittimità e a mettere in evidenza un problema di controllo.

Proprio parlando di controllo…il controllo di chi? La risposta è complessa.

L'Occidente non è d'accordo con Cina e Russia, quando si tratta di controllo da parte dell’autorità statale. Uno Stato democratico non dovrebbe esercitare censure sulla libertà d'espressione dei propri cittadini, né nella vita analogica né in quella digitale. Le democrazie non possono impedire ai propri cittadini utenti di Facebook-piattaforma di animare sul social network confronti politici anche accesi e pirotecnici. Ci sono alcuni limiti, ad esempio l’apologia al nazifascismo, stabiliti da leggi in vigore su tutto il territorio nazionale. Ma questo riapre il problema: che leggi valgono nel territorio virtuale delle piattaforme? Quelle dello Stato dove hanno sede i server con i dati degli utenti? E se questo Stato fosse in conflitto con un altro?

Se passiamo invece dal controllo “politico” al controllo societario potremmo azzardare risposte più concrete, partendo dalla considerazione fondamentale che gli utilizzatori dei social network, i loro “consumatori”, sono o possono essere anche “produttori” di contenuti, così come gli utenti di piattaforme sharing, come BlaBlaCar,. Producer and consumer, in una parola: prosumer

La compresenza ibrida, nello stesso soggetto, di due status quasi opposti, suggerisce una mutualità che sembra fatta appositamente per il modello cooperativo. In questi tempi in cui la scarsa trasparenza di alcuni giganti del web emerge con tutta la sua forza, non sarebbe illogico se questo tipo di modello organizzativo ed economico venisse “riservato” alle cooperative. Anzi, potrebbe essere una una sfida lanciata dal movimento cooperativo ai “decisori politici”. Con percorso inverso, è già accaduto nel sistema bancario, dove, per le banche oltre una certa dimensione, è stata imposta “ex lege” la trasformazione in società per azioni.

Se questa trasformazione coatta è stata avallata e sostenuta dal legislatore nazionale, allora perché un legislatore sovranazionale non dovrebbe imporre a Facebook-azienda di trasformarsi in cooperativa?

Al prosumer non manca un rapporto mutualistico con la piattaforma, mancano solo l’effettivo potere di indirizzo societario e la possibilità di ricevere parte del valore realizzato. In forma cooperativa sarebbe possibile non solo la democratizzazione dei social network, ma anche l’avvio di una “democrazia della cittadinanza digitale” – che non si può certo risolvere con liberatorie sulla privacy (che non legge nessuno) o con semplici consultazioni on line.


La forma cooperativa, a ben vedere, si candida ad essere la più coerente, per gestire attività economicamente rilevanti, che prevedono un contributo diretto dell’utente oe l’utilizzo dei dati e dei contenuti da questi prodotti

Al netto della provocazione, tutto questo dà un'idea di quanto complessa sia la “cittadinanza digitale” e di quanti dubbi sollevi il sistema di "estrazione di valore" a cui è sottoposta: cioè la compravendita assolutamente opaca dei dati prodotti. Eppure, tecnologia e società non sono mai

state tanto vicine a dare una precisa collocazione, anche giuridica, ad una cittadinanza digitale vera e propria, con tanto di reddito di cittadinanza annesso.

Due casi alla mano. Il primo è l'Alaska dove esiste una legge, democraticamente approvata, per cui la popolazione beneficia di proventi generati dall'estrazione del petrolio sotto forma di dividendi distribuiti dalla compagnia petrolifera statale. È l’Alaska Permanent Fund: approvato nel 1976, ha pagato dividenti dal 1982. Il secondo viene dall'Estonia, paese di startup innovative, il cui governo concede cittadinanza digitale agli imprenditori che vogliono investire nel paese dando vita ad imprese digitali, grazie all'infrastruttura blockchain nota come Bitnation.

Se Facebook fosse una cooperativa di utenti, probabilmente si candiderebbe ad essere il paese (digitale) più popoloso al mondo. Come cooperativa, dovrebbe dotarsi non solo di un governo democratico, ma anche di un sistema di controllo che assicuri la democraticità del governo e delle decisioni prese. E come impresa potrebbe esercitare attività economica in questo senso: raccogliere dati conferiti dagli utenti, elaborarli secondo le proprie regole, e venderli al miglior offerente tra quelli scelti dai soci-utenti-cittadini. Esattamente come una cantina sociale vende il vino a partire dall'uva conferita dai soci per poi ristornare loro il ricavato dal surplus economico prodotto…altro che petrolio! La tecnologia blockchain in questo senso potrebbe diventare fondamentale. Garantisce l'affidabilità del dato raccolto, lo immagazzina in un registro pubblico e decentrato, pesa il suo valore quantitativo, ne traccia gli scambi e le valorizzazioni economiche, propone un prezzo al cliente, elabora un bilancio di fine esercizio, quantifica il ristorno da dare a ciascun socio-utente-cittadino, e infine lo distribuisce. Gli utenti generano dati in automatico e in automatico la blockchain cooperativa li valorizza.

La piattaforma cooperativa di conferimento dati potrebbe "girare" da sé, una volta dotata degli opportuni smart contract, ossia di contratti ad esecuzione automatica, i quali possono, avverata la condizione predefinita (come un passaggio di informazioni o di valori economici) produrre effetti giuridici immediatamente, senza intervento umano, né di notai né di programmatori.

Questo sistema inoltre potrebbe rendere anche più trasparente ed equo il sistema di tassazione per i “giganti del web”, già in altre occasioni abbiamo fatto riferimento alla necessita di un regime fiscale per le imprese digitali con una forma di “tassa di concessione" sull’estrazione dei dati. Chiarita la possibilità, una domanda è d’obbligo: è questa la condizione ideale? Affidare la Repubblica Digitale ad un governo del software? Sì e no.No, perché l'esperimento di "radicalizzazione volontaria" del giornalista di Rue89 dimostra quanto sia facile che un automatismo, anche generato consapevolmente, si avviti su se stesso e chiuda l'utente in una sorta di bolla.

Se Facebook fosse una cooperativa di utenti, probabilmente si candiderebbe ad essere il paese (digitale) più popoloso al mondo. Come cooperativa, dovrebbe dotarsi non solo di un governo democratico, ma anche di un sistema di controllo che assicuri la democraticità del governo e delle decisioni prese

Le esperienze che si iniziano a veder ci dicono che non stiamo facendo un esercizio meramente stilistico. Midata è un progetto cooperativo sviluppato in Svizzera: una piattaforma che consente ai cittadini di archiviare, gestire e controllare in modo sicuro l'accesso ai propri dati personali aiutandoli a creare e sviluppare cooperative Midata territoriali senza fini di lucro. I dati sensibili, in particolare quelli relativi alla salute, sono i più preziosi e influenti sulle policies territoriali; il progetto mira a tutelarli e valorizzarli in una logica democratica e decentralizzata

Come soci Midata, i cittadini possono non solo visualizzare e analizzare i propri dati personali, ma anche conferirli per contribuire attivamente a ricerche mediche e sperimentazioni cliniche. Il socio-paziente in questo modo diventa, in modo volontario e consapevole, co-creatore con altri pazienti di processi sperimentali di ricerca ed innovazione.

Premiare chi co-partecipa e chi co-progetta è uno degli asset del valore del progetto, cosi come lo sono la trasparenza sulle informazioni, i dati, le loro modalità di trattamento, la loro tutela ed il consenso informato In quanto piattaforma agli utenti è garantita la partecipazione ai processi di informazione, decision making e governance delle cooperative. Gli utenti possono anche ritirare e cancellare in maniera definitiva i propri dati personali in qualsiasi momento, in linea con quanto ribadito dalla nuova normativa sulla privacy – The EU General Data Protection Regulation (GDPR). Chiarita la possibilità, una domanda è d’obbligo: è questa la condizione ideale? Affidare la Repubblica Digitale ad un governo del software? Sì e no. No, perché l'esperimento di "radicalizzazione volontaria" del giornalista di Rue89 dimostra quanto sia facile che un automatismo, anche generato consapevolmente, si avviti su se stesso e chiuda l'utente in una sorta di bolla. Sì, invece, perché senza software, e senza una blockchain come quella di Ethereum, sarebbe impossibile ricevere, registrare pubblicamente, conteggiare, e valorizzare a livello decentrato non solo i dati, ma anche i voti degli utenti-soci-cittadini riguardanti la gestione della piattaforma cooperativa, e quindi dare valore non solo alla quantità ma anche alla qualità dei dati prodotti. L'unico modo per retribuire il traffico di chi diffonde cultura e sanzionare i contributi anti-sociali, e quindi dare valore qualitativo ai semplici bit, è stabilire principi e diritti umani, lasciando alle macchine ciò che sanno fare meglio di noi: eseguire in automatico la "burocrazia".

A Barcellona è stato avviato Decode Project, un progetto sperimentale grazie al quale ai partecipanti viene assicurata la possibilità di “controllare” i propri dati personali e il grado di condivisione che si è disposti a mettere in gioco, proprio utilizzando un sistema decentrato di reazioni “alla pari” tra i partecipanti alla piattaforma, consentito dalle nuove tecnologie di interazione digitale distribuita

Oggi milioni di persone generano, anche solo con la propria presenza digitale, dati che arricchiscono, in maniera assai opaca, pochi azionisti di poche multinazionali. Troppe persone, invece, contribuiscono a questa economia pur non avendo un reddito sufficiente per sostenersi. Un reddito di base universale "a pioggia" è, a nostro parere, dannoso e troppo legato a quella cultura dell’assistenzialismo che non ha mai contribuito a ridurre diseguaglianze ne a rendere protagonisti i cittadini. Ma una distribuzione del valore economico prodotto, equa e proporzionata al merito e all’impegno, è una misura di cittadinanza attiva e incentivante. Estonia e Alaska hanno fatto da apripista. Se le tecnologie “open” si sono già dimostrate volano di inclusione, apprendimento, L'idea di fondo, la forma cooperativa, è già stata collaudata da secoli, e funziona.

Può non bastare, però: la cittadinanza non è solo una questione economica. Per questo è importante il coinvolgimento degli enti pubblici, a cominciare dalle autonomie locali. Città e pubbliche amministrazioni si sono già mosse in questa direzione: a Barcellona è stato avviato Decode Project, un progetto sperimentale grazie al quale ai partecipanti viene assicurata la possibilità di “controllare” i propri dati personali e il grado di condivisione che si è disposti a mettere in gioco, proprio utilizzando un sistema decentrato di reazioni “alla pari” tra i partecipanti alla piattaforma, consentito dalle nuove tecnologie di interazione digitale distribuita.

Una architettura tecnologia cooperativa e una pubblica amministrazione digitale vicina ai cittadini, possono permettere non solo di raccogliere dati e informazioni ma anche di mutualizzarene il valore, con un’impostazione che si avvicina ai nuovi modelli di “cooperative di comunità”, le realtà più avanzate si attivano fornendo alle persone rinnovate e significative opportunità di continuare con maggiore efficacia e consapevolezza a svolgere riunioni, incontri e Focus-Group, come sta sperimentando ad esempio il comune di San Martino in Rio. Insomma una versione 4.0 dello “sviluppo locale” che si potrebbe coniugare con le esperienze delle monete complementari, attivate proprio in alcune città per regolare forme di scambio alla pari e per animare l’economia locale e di prossimità, ma anche come concreti strumenti per una gestione non assistenziale e proattiva di forme innovative di reddito di cittadinanza a livello locale, come ad esempio sta sperimentando il comune di San Martino in Rio.

Una versione 4.0 dello “sviluppo locale” potrebbe tenere tutto insieme (piattaforma di conferimento dati, network, democrazia, e partecipazione), adottando eventualmente una propria moneta complementare, come già è stato sperimentato in alcune città proprio per regolare forme di scambio alla pari, animare l’economia locale, e gestire in forma non assistenziale ma proattiva un reddito di cittadinanza a livello locale.


Gli autori:

*Samuele Bozzoni – Lavora in Confcooperative Lombardia; esperto di risorse umane e relazioni sindacali, con focus su processi partecipativi fisici e digitali nelle organizzazioni e nelle comunità.

**Simone Caroli – PhD in Formazione della persona e mercato del lavoro, lavora in Confcooperative Modena attento ai cambiamenti tecnologici e organizzativi in ambito lavoro, si occupa di relazioni sindacali e gestione delle risorse umane.

***Giuseppe Guerini – Presidente di Federsolidarietà Confcooperative e di CECOP-Cicopa Europa.

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