Cultura

Un uomo solo contro il Gulag

Oggi a Mosca i funerali dello scrittore russo, premio nobel per la letteratura che denunciò i lager sovietici.

di Emanuela Citterio

“L’anima umana desidera cose più elevate, più calde e più pure di quelle offerte oggi alla massa”(A. Solzenicyn)

Aleksandr Isaevich Solzenicyn è morto ieri sera tardi a Mosca, a casa sua, stroncato da un ictus a 89 anni. Lo scrittore che svelò al mondo gli orrori dei gulag sovietici, con Arcipelago Gulag” e “Una giornata di Ivan Denisovic”, premio nobel per la letteratura, era malato da tempo, anche se continuava a occuparsi delle sue opere, un’edizione completa delle quali è uscita in Russia proprio nei mesi scorsi.

«Oggi toccherà agli onori di Stato, ai funerali solenni, alle condoglianze di leader politici e mostri sacri della letteratura» scrive la corrispondente de La Stampa Anna Zafesova. «Ma l’uomo che è morto ieri a Mosca non era solo il Nobel per la letteratura, il più grande scrittore russo vivente, il padre del dissenso sovietico. Era il Novecento russo, dalla sua nascita nel 1918, a rivoluzione appena compiuta, a Krasnodar, figlio di contadini e di ufficiali imperiali, di quella vecchia Russia che veniva demolita proprio in quei giorni».

«Non c’è tragedia che non avesse vissuto sulla propria pelle: dal padre «nascosto» perché ufficiale dello zar, alla repressione di quella fede ortodossa nella quale era stato allevato dalla madre, all’incubo della guerra fatta da ufficiale di artiglieria, fino al Gulag – parola che proprio lui introdusse nel vocabolario di tutte le lingue – nel quale finì per aver criticato in una lettera Stalin, chiamandolo «baffone» e «capobanda». Otto anni di lager in base all’infame articolo 58 del codice penale, attività antisovietica, poi il confino «eterno» nelle steppe asiatische, dal quale è stato liberato da Krusciov, che nel 1962 da il suo consenso personale alla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovich».

Negli ultimi anni Solzenicyn ha vissuto in una sorta di isolamento, rotto un anno fa da Vladimir Putin che andò a consegnargli il premio di Stato per la sceneggiatura de “Il primo cerchio”. «Solgenicyn era diventato una fiction» scrive la Zafesova, «e probabilmente si era rassegnato a questa nuova Russia, se non altro perché aveva fatto entrare in casa quel giovane presidente che era stato ufficiale di quel Kgb che lo aveva perseguitato. Fu l’ultima volta che i russi lo videro vivo».

Il Solzenicyn degli ultimi tempi emerge dai ritratti di chi l’ha incontrato come un intellettuale stretto fra la delusione per la nuova Russia e l’avversione per il tipo di democrazia incarnato dall’Occidente. «Solzenicyn non amava l’Occidente, non lo comprendeva e lo considerava come un modello ostile alla Russia» dice oggi in un’intervista lo storico statunitense Richard Pipes. Una critica che proveniva «dalla profonda convinzione che l’occidente sia una società che penalizza gli aspetti più umani degli individui e della collettività».

“L’anima umana desidera cose più elevate, più calde e più pure di quelle offerte oggi alla massa” aveva detto negli anni Settanta criticando la cultura del consumismo. E non ha mai cambiato idea.


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