Non profit
Un Titanic a Wall Street
Intervista con Oliver Stone sul set del sequel del suo celebre film
Il grande regista americano sta girando un film sulla bolla che ha messo
in ginocchio l’economia del pianeta. E al nostro inviato confessa: «Questo è un casinò e anch’io ho perso un sacco di soldi. Dalla crisi si uscirà solo credendo
di più nell’investimento responsabile»
New York
Oliver Stone torna sul luogo del delitto. 23 anni dopo Wall Street, il film che racconta ascesa e caduta degli yuppies di Borsa, il regista più anti-hollywoodiano di Hollywood sforna il sequel, il secondo capitolo sulla razza dei finanzieri d’assalto. Allora, nel 1987, l’american dream godeva del suo massimo splendore. Il presidente Ronald Reagan, al secondo mandato alla Casa Bianca, metteva fine a 40 anni di guerra fredda archiviando, con il trattato di Reykjavik, l’incubo comunista e la minaccia di conflitto nucleare. La deregulation economica cavalcava promesse di ricchezza. E il Dow Jones, il più noto indice di Borsa di Wall Street, ingranava la marcia che l’avrebbe lanciato in dieci anni da 2.500 a oltre 10mila punti. Su quell’onda lunga di denaro e speculazione si muoveva a suo agio Gekko – Michael Douglas -, il broker cinico e spregiudicato per cui «l’avidità è un bene» e il «denaro non dorme mai».
Oggi, nell’America che non ha ancora digerito la grande crisi, con la zavorra del sovraindebitamento, privato, commerciale e di Stato, è pronto a uscire (previsto il 23 aprile ma slittato a settembre) Wall Street 2, Money never sleep, una riflessione amara sugli eccessi del turbocapitalismo. «Michael Douglas (tra i produttori del film, insieme con Stone e Edd Pressman, ndr) mi aveva proposto di girare il sequel già nel 2007. Rifiutai», dice l’autore di Platoon e Nato il 4 luglio. «Con lo scoppio del sistema ho cambiato idea. Perché mi sono reso conto della portata di quest’ultima bolla finanziaria, degli effetti devastanti sull’economia reale. Nel primo Wall Street le scommesse degli squali di Borsa bruciavano milioni di dollari. Ora si parla di miliardi, di un collasso che muterà per sempre la nostra società».
Incontriamo Oliver Stone sul set newyorkese del film, al numero 25 di Broadway, a due passi da Wall Street, nell’edificio che un tempo era la biglietteria delle crociere transatlantiche Cunard. Al primo ciak, la finzione si mescola alla realtà. Siamo al gran galà di beneficenza di Skybridge Capital, società di investimenti e per l’occasione sponsor dell’Associazione nazionale per la cura dell’Alzheimer, quasi a suggerire la memoria corta del capitalismo. Tra le comparse, che si fotografano divertite in smoking e abito lungo con le fotocamere di cellulari di ultima generazione, ci sono Susan Hess, la moglie del magnate del petrolio, il principe Dimitri di Jugoslavia, e Peggy Siegal, la regina delle pr newyorchesi. Dopo anni di prigione, Gekko è tornato. Questa volta nei panni di una Cassandra, tentando di avvisare quel mondo finanziario, ancora più corrotto di come l’aveva lasciato, che la speculazione ha rotto gli argini ed è pronta a far scoppiare una nuova bolla. Gekko/Douglas redento si intreccia con la storia di un giovane broker (Shia LeBoeuf), fidanzato con la figlia dell’ex raider. Insieme scopriranno i malaffari della nuova Wall Street. «Questo è un pazzo mondo che balla sul Titanic e continua a ridere anche quando la barca sta affondando», dice il regista. «Negli anni 80 si sono inventati i junk bonds, le obbligazioni spazzatura, che andavano a ruba e arricchirono un sacco di gente. Salvo poi generare una bolla e far fallire piccoli risparmiatori e società sane. Oggi Wall Street è diventata un casinò. Tutti giocano d’azzardo, qualcuno legalmente, altri, molti altri, utilizzando tutti i mezzi possibili pur di vincere la puntata».
Figlio di un broker ebreo e di una insegnante francese cattolica, Stone, classe 1946, è stato allevato al compromesso. Battezzato protestante episcopale, convertito al buddismo dopo l’esperienza devastante in Vietnam, ha provato a seguire le orme paterne lavorando, da ragazzo, in una società di investimenti alla Borsa di Parigi. Alla fine la vena dell’artista polemista ha prevalso. Ed è diventato il più ascoltato critico dell’american way of life. Mettendo a nudo la politica d’intervento militare americana (Platoon e Nato il 4 luglio), sotterfugi e complotti alla Casa Bianca (Jfk , Gli intrighi del potere e W), fino a spingersi a raccontare i grandi nemici degli Usa, con i documentari Looking for Fidel e Comandante. «Negli ultimi anni il 40% dei profitti generati dal mercato azionario è finito nelle tasche delle società finanziarie. Che non si sono accontentate e hanno usato all’eccesso la leva del debito per fare ancora più soldi. Un disequilibrio tale che prima o poi sarebbe saltato in aria. E ancora oggi, dopo la grande crisi, la finanza non ha perso il vizio». Questo capitalismo ultraliberista non va. Ma l’alternativa qual è, meno libertà e più legalità? «Non sono contrario al mercato. Mio padre era un broker, un repubblicano di ferro che ha speso tutta la vita professionale contro i paletti della regulation. Ma era un uomo onesto. E come lui ce ne sono ancora tanti in giro per Wall Street. Tuttavia l’assenza di regole favorisce l’ingresso sul mercato a branchi di squali pronti a tutto pur di avere potere e denaro».
Lo Stone regista aveva capito tutto, ma lo Stone investitore ci è cascato lo stesso. «Certo, anche io affido i miei soldi a professionisti della gestione del risparmio. E ho perso, come tanti, un sacco di quattrini». Mai pensato di investire in modo alternativo, magari nella finanza che si dice etica e sostenibile? «Personalmente ci credo. Anzi. Sono certo che una delle vie di uscita da questa crisi morale, prima che economica, sia l’investimento socialmente responsabile. Ma in questo Paese è molto difficile. Io ci ho provato. E ho chiesto ai miei consulenti di escludere dal mio portafoglio titoli, per esempio, l’industria delle armi. Un’esperienza fallimentare. Prima o poi ti ritrovi in tasca azioni di quell’azienda che si è messa a fare puntatori per carro armati, o di una che fornisce le materie prime. Vent’anni fa c’erano i Gekko a speculare. Oggi è ancora più disumano, perché Wall Street ha scoperto la tecnologia. Ci sono fior di matematici e fisici assoldati dalle compagnie finanziarie che mettono a punto computer e algoritmi per creare il titolo perfetto».
Perfetto fino alla prossima crisi.
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