Cultura

Un tipo che nessuno vuole. Don Milani l’artista che trovò Dio

Valentina Alberici con il suo libro "Lorenzo Milani. L’artista che trovò Dio",ripercorre le tappe della vita che condussero un ragazzo ricco e infelice a farsi prete passando prima per l’accademia di Belle Arti di Brera

di Pietro Piro

Aldilà dei “motivi occasionali” dettati da bisogni celebrativi, agiografici o di mera convenienza, ci sono “motivi profondi” che ci fanno ritornare a leggere le pagine scritte da quel “tipo che nessuno vuole” (come lo definiva il vicario generale di Firenze in una lettera a Don Pugi), il prete di Barbiana Don Lorenzo Milani.

Vorrei elencarne alcuni, pur sapendo che si tratta di una limitazione.

Il primo è l’inquietudine radicale di un ragazzo di buona famiglia che finisce per farsi prete per dare un senso più profondo alla sua vita. Il secondo è la compassione che trapela nei suoi scritti per l’ultimo, l’escluso, il povero. Ma una compassione senza commiserazione, una compassione che diventa desiderio imperante di liberazione.

Il terzo motivo profondo è il suo linguaggio. Diretto, implacabile, giusto. Un linguaggio che è capace di mettere in evidenza – a partire da una serrata analisi dei “segni dei tempi” – le incongruenze, le ipocrisie, le vergogne di una società prima e di una Chiesa poi che hanno tradito il messaggio del Vangelo.

Forse è proprio il linguaggio di Don Milani l’origine della sua condanna in vita e della sua salvezza dall’oblio dopo la morte. Un linguaggio che vuole mettere a nudo «la figura patetica di quell’uomo prigioniero nell’informazione reticente e nell’ossequio vile».

Continuiamo, ancora, a leggere e rileggere le pagine di Don Milani cercando “ragioni” per il nostro agire quotidiano, mossi da un profondo sentimento di ammirazione per questa figura solitaria e irriducibile.

Valentina Alberici con il suo libro Lorenzo Milani. L’artista che trovò Dio, Paoline, Cinisello Balsamo 2017, scritto con devozione e affetto per Don Milani, ripercorre le tappe della vita che condussero un ragazzo ricco e infelice a farsi prete passando prima per l’accademia di Belle Arti di Brera. Sebbene Don Milani abbia definito gli anni precedenti alla sua ordinazione sacerdotale “venti anni passati nelle tenebre dell’errore”, sono stati certamente anni di “formazione” di relazioni importanti e di esperienze significative.

Valentina Alberici ripercorre le tappe di questo percorso, concentrandosi in particolare sulla relazione tra Lorenzo Milani e il pittore tedesco Hans-Joachim Staude dove la famiglia Milani aveva inviato il giovane Lorenzo per apprendere i rudimenti della pittura dopo che – con grande dispiacere per i suoi genitori – avena deciso di diventare pittore.

Il rapporto con Staude è intenso. Lorenzo apprende in fretta e si applica alle tecniche pittoriche con straordinaria dedizione. Tuttavia, c’è qualcosa in quel suo modo di fare che lascia perplesso il pittore tedesco che ricorderà: «rimaneva in questi disegni una specie di freddezza. Non mi convinceva come scolaro. Aveva capito tutto quanto intellettualmente, ma gli mancava un’immediatezza…Io non ho mai creduto, neanche per un momento, che la pittura fosse la sua strada» (p. 21).

Lorenzo si dedica alla pittura con intensità ma si sente anche solo (p. 27) e privo di relazioni con coetanei in grado di condividere con lui le gioie della giovinezza. Decide allora d’iscriversi all’Accademia di belle arti di Brera. Li incontra una figura importante nella sua formazione: l’insegnante di Storia dell’arte e di Costume Eva Tea che con le sue lezioni fa avvicinare Lorenzo all’arte e alla liturgia cristiana.

A Brera Lorenzo frequenta un solo anno e con discontinuità. Il suo metodo di studio consiste nel dedicarsi esclusivamente a ciò che interessa o che ritiene utile, evitando accuratamente di perdere tempo su materie che non piacciono, anche se previsto dal programma (p. 35).

Un metodo che non sembra portare molto frutto perché abbandonata Milano e l’accademia si ritrova a Firenze nei primi mesi del 1943 in una condizione di disorientamento, di mancanza di prospettive (p. 63). Da questo disorientamento uscirà solo attraverso la ricerca di qualcosa di più grande, una fede in Dio che si rivelerà attraverso la condizione degli ultimi per i quali Lorenzo sembra essere particolarmente sensibile sin dall’origine della sua vocazione. L’ingresso in Seminario il 9 novembre 1943 gli darà quella felicità e serenità che prima gli erano mancate. Ha conosciuto bene la mondanità e non ha rimpianti per un mondo che sente non dargli più nulla. La vicenda biografica di Don Milani prete è nota: prima la scuola popolare a San Donato, poi l’esilio a Barbiana, il processo e la morte. Una parabola che è stata oggetto di studi, ricerche, riflessioni approfondite. Don Lorenzo giunge dunque alla fede anche grazie all’arte. Il bello lo attrae e in particolar modo la bellezza della liturgia. La straordinaria unicità del rito della messa che sente come il punto più alto dell’ufficio del prete. La ricerca del bello lo conduce alla vita del prete sentendo in questa scelta la realizzazione di un ideale di bellezza altissimo.

Hans-Joachim Staude il maestro di pittura che aveva intuito che Lorenzo non sarebbe mai diventato un pittore ha affermato che: «Il fatto che dopo tanti anni parliamo ancora di Lorenzo Milani, che lui sia talmente presente, che questa figura sia così vibrante, che ancora porti all' entusiasmo molta gente. Che cosa vogliamo di più dalla vita. Ha avuto una magnifica vita…..Questi ragazzi che hanno studiato con lui, che arricchimento hanno avuto in questo incontro! In questo c'è la sua gloria….» (p. 20).

Ha ragione Staude? La vita di Don Milani è stata un opera d’arte?

Personalmente non credo a questa ricostruzione. Non dobbiamo confondere il presente con il passato. Il Don Milani di oggi, celebrato, ricordato, venerato e considerato un grande maestro di spiritualità, non è quello in carne e ossa dell’esilio di Barbiana.

Sono convinto che Don Milani sia morto perché ha sofferto fino al midollo l’esclusione e l’isolamento, il non essere amato e non essere riconosciuto. Soprattutto da una Chiesa dalla quale ha sempre cercato un riconoscimento che in vita non è mai arrivato. Don Milani era un figlio “che nessuno vuole” una linguaccia sconcia in grado di suscitare scandalo. Un prete che credeva che «Tacere non è rispetto. È fare dare una spallucciata dopo aver visto degli infelici che non sanno vivere, gente in mare che non sa nuotare» (pp. 159-160). Un prete che doveva essere dimenticato e censurato. Una visita a Barbiana può bastare per rendersi conto di come si possa essere stati crudeli nei confronti di un giovane uomo pieno di entusiasmo e di speranza evangelica. Don Lorenzo ha sofferto molto durante la sua vita. Non accetto che questa sofferenza – che è poi la sofferenza dell’escluso, del marginale, del povero e del reietto – sia ricondotta a una narrazione vincente, a un mito pedagogico funzionale al sistema di dominio, a un santino immacolato.

Credo che sia un’ulteriore mancanza di riconoscimento, un ulteriore ferita nei confronti di un uomo che bramava solidarietà e amore e che lo ha avuto principalmente da quei piccoli montanari che erano diventati la sua Chiesa e la sua ragione d’essere.

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