Il 24 maggio di un secolo fa, in seguito ad un colpo di mano antidemocratico, il governo italiano di Antonio Salandra, in combutta con il Re, dichiarò guerra all’Austria. Nelle settimane precedenti, senza informare il Parlamento – in larga maggioranza contrario alla guerra – e ribaltando l’impegno neutralista assunto solennemente nell’agosto dell’anno precedente, aveva segretamente stretto alleanza con la Triplice Intesa in funzione anti austriaca. E’ l’inizio del tributo italiano alla “inutile strage” (papa Benedetto XV) che provocò complessivamente 16 milioni di morti e 20 milioni di feriti e mutilati. Tra gli italiani le vittime, militari e civili, furono 1.240.000, cioè il 3,4 % della popolazione, in grandissima parte appartenente ai poveri ceti popolari. Dei 5 milioni e 200mila italiani che furono chiamati alla guerra, e ne comprendevano la follia, 870mila, il 15%, subirono processi per renitenza e insubordinazione. Molti furono direttamente passati per le armi dai propri ufficiali attraverso la decimazione di interi reparti: l’uccisione casuale di un soldato ogni dieci per combattere gli ammutinamenti delle truppe.
Nella guerra che dispiegherà le sue ali di morte fino al 1918, gettando i presupposti generatici di fascismo e nazismo, c’è un’evoluzione strategica definitiva che la porterà ad essere definita “grande”: per la prima volta vennero utilizzati tutti i mezzi di distruzione di massa che erano stati sviluppati dalla rivoluzione industriale. I corpi delle persone vennero considerati meri mezzi per raggiungere fini di potenza, vera e propria carne da macello. Nei piani degli Stati maggiori sia il proprio esercito che quello avversario divennero una massa di “materiale umano che andava annientato con le macchine” (E. Krippendorf, Lo Stato e la guerra), al punto che nelle sue note di guerra il generale Cadorna – ribattezzato, non a caso, “il macellaio”- scriveva “le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini”. La chimica, la meccanica e l’areonautica furono convertite in tecnologia bellica industriale, dando l’avvio alla prima guerra totale della Storia ed all’avvio di quel perverso “complesso militare-industriale”, che ancora nel 2014 è costato all’umanità intera qualcosa come 1800 miliardi di dollari sacrificati sull’altare delle spese militari (dati SIPRI).
Il 22 maggio di cento anni dopo sono stati consegnati agli uffici della Camera dei Deputati sette scatoloni contenenti le oltre 50mila firme necessarie alla proposta di Legge di iniziativa popolare per la difesa civile, non armata e nonviolenta. Dopo un secolo è un totale capovolgimento di prospettiva, nei mezzi e nei fini. Invece di puntare a raggirare il parlamento, la legge di iniziativa popolare è uno strumento di democrazia diretta, per l’esercizio del quale, per sei mesi, si sono mobilitati centinaia di comitati locali e singoli cittadini, decine di consigli comunali hanno deliberato mozioni di sostegno, così come l’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna ne ha approvato una risoluzione di adesione. Oggi questo patrimonio è stato consegnato all’organo legislativo, che è chiamato a far compiere al nostro Paese, finalmente, un salto di civiltà.
La legge di iniziativa popolare per l’Istituzione del Dipartimento per la difesa civile non armata e nonviolenta è un ribaltamento della logica del fine che giustifica i mezzi, che ha portato – nella “grande guerra” ed in tutte le altre – a considerare le persone come munizioni o bersagli. E’ lo sviluppo dell’idea – già incardinata nella Costituzione e nel nostro ordinamento legislativo, ma ancora priva di strumenti operativi strutturali – che non è automatico che i conflitti internazionali si trasformino in guerre, che è possibile intervenire in essi in maniera civile e disarmata, che la Patria è minacciata nei diritti costituzionali dei cittadini più che nei suoi confini territoriali, che quindi fornisce più sicurezza collettiva investire nel Servizio civile nazionale, nei Corpi civili di pace, in un Istituto di ricerca sulla pace, anziché su tremendi strumenti e costosissimi mezzi di attacco militare.
A 100 anni dall’inizio della “prima guerra mondiale” ed a 70 dalla fine della “seconda”, il Parlamento sarà pronto a consentire una svolta di civiltà al Paese, o continuerà a dire “missioni di pace” ma a finanziare e predisporre azioni di guerra? A rispettare, finalmente, il costituzionale ripudio della guerra. Oppure continuerà a ripudiare la Costituzione, come il Re che quel 24 maggio ripudiò lo stesso Parlamento? Un secolo dopo l’inutile strage, un’altra difesa è oggi finalmente possibile. Facciamo in modo che diventi realtà.
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