Scuola & Serie tv
Un professore, tra fiction e realtà
Si è chiusa con grande successo la seconda stagione della fiction "Un professore", con Alessandro Gassman in cattedra nei panni del prof Dante Balestra. Un docente di filosofia ci scrive...
«Prof, certo che sarebbe bella una scuola così», mi dicono i miei studenti. Sì ragazzi, sarebbe bello, rispondo io…. Ma in questa serie da voi tanto amata, Un professore, proprio questo “sarebbe” mi fa un po’ innervosire. Sarebbe bello, ma non si può.
Continuo a vederla, mi appassiono e mi emoziono anch’io con loro, perché vedo l’interesse con cui loro la seguono. E questo è importante. Anche io insegno, come Dante. Anche a me piacerebbe poter filosoficamente “improvvisare” argomento, oggetto e luogo di lezione. I miei studenti lo sanno. E sanno anche quanta fatica si fa a tentare, ogni tanto, per quel che è concesso, di fare qualcosa di diverso dalla solita, ripetuta, noiosa, immutabile, lezione frontale. O comunque dalla necessità di stare seduti in classe. E fin qui, ogni tanto, qualcosa devo dire che riusciamo a fare….
Sarebbe bello. Sì, ma sarebbe innanzitutto buono e giusto! Necessario anzi, direi, per poter finalmente provare a superare i rigidi schemi strutturali che imprigionano la scuola da sempre, che la rendono un’istituzione fondamentalmente chiusa, nonostante tutto. Perché il problema è proprio qui, ed è questo che mi fa innervosire quando poi una serie tv così popolare alla fine è costretta a giocare di fantasia, di troppa fantasia, allontanandosi da una realtà che rimane così abbandonata a sé stessa.
Sarebbe bello poter guardarli negli occhi e ascoltarli i nostri ragazzi, ogni mattina, entrando in classe. Così come fa il prof Dante, quando disponendosi ad ascoltare si dispone al tempo stesso a mostrarsi vulnerabile, autentico, credibile. Mettere in primo piano le loro e le nostre emozioni, quello che qui ed ora stiamo vivendo, pensando, soffrendo. E partire da lì. Senza dover per forza programmare ogni cosa, chiedere mille autorizzazioni per il minimo spostamento, comunicare e pianificare preventivamente ciò che di per sé non è programmabile. Perché? Perché è la vita. Sì, la vita ragazzi! E la vita “non conclude”, come diceva Pirandello. L’esistenza è “povera e successiva”, come diceva Kierkegaard. Contraddittoria, imprevedibile. Ma così è. Innegabile. E noi non possiamo continuare sempre a mortificarla, ignorarla, comprimerla, per il rispetto rigido e ottuso all’ennesimo “protocollo”.
Ecco cosa mi fa pensare la conclusione della seconda stagione di Un professore. Può essere uno stimolo per provarci? Per me sicuramente lo è, nonostante tutto. Ma porta in sé anche l’inevitabile consapevolezza di quanta fatica, delusione, fallimenti dovremo ancora sopportare, ogni giorno, in ogni ora di lezione, per poter magari di tanto in tanto, inaspettatamente, vivere momenti autentici di emozione condivisa: che, si sa, può essere l’unico strumento didattico efficace per un apprendimento vero, consapevole, vissuto.
Proprio quello che si continua a chiedere ogni giorno, sempre di più, teoricamente, alla scuola, dinanzi ad ogni emergere quotidiano di continui disagi, violenze, malesseri diffusi. Ma come fare allora per tentare di vedere una via possibile, se non ci poniamo innanzitutto la necessità di raggiungerli, i nostri ragazzi? Di ascoltarli, di aprire tutte le nostre strutture precostituite, di cui noi stessi soffriamo, alle loro più vere emergenze educative.
Eppure, la maggior parte di noi prof, in fondo, sarebbe pronta a fare – e nei limiti del possibile già fa – ciò che si vede nel film: si interessa umanamente (e non solo professionalmente) alle sofferenze e alle difficoltà di ognuno dei suoi alunni, è pronto a soccorrerli, a intervenire, quando richiesto e se necessario, molto al di là dei suoi doveri da contratto. Perché, si sa, il nostro non può essere mai soltanto un lavoro.
In uno degli ultimi rapporti scientifici sul mondo scuola, tra le conclusioni più rilevanti troviamo questa: «Allora quali sono i fattori di impatto più efficaci? L’autovalutazione ad esempio, il supporto relazionale continuo del docente con l’allievo. La credibilità del docente». E riprendendo la metafora del “pachiderma liquido” utilizzata da un’altra molto diffusa ricerca, su queste stesse pagine Marco Orsi così concludeva: «Si tratta di preferire la solidità alla staticità, la comunità all’individualismo, la vera trasformazione al cambiamento aleatorio. Insomma la leggerezza al posto della pesantezza».
Facile vero? No, in realtà per nulla. Molto più semplice, ma anche purtroppo inutile e dannoso, continuare a moltiplicare riforme su riforme, progettare unità di apprendimento, addirittura immaginare nuove “discipline” che debbano affrontare ciò che disciplinare non è e non può essere. Perché dovrebbe essere piuttosto il presupposto, il fondamento essenziale, di ogni ora di lezione.
*Massimo Iiritano, docente, presidente di Amica Sofia, autore del libro A scuola con… Filosofia (Jouvence 2023)
“Un professore” è una coproduzione Rai Fiction – Banijay Studios Italy. Foto dal press kit di Rai Fiction
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