Pedagogia
Un po’ Munari, un po’ Rodari: l’educatore non può fare a meno della creatività
Educare non può vuol dire solo svolgere programmi, applicare protocolli, ripetere copioni. Il lavoro educativo ha bisogno di nutrirsi di creatività. Lo raccontano Dafne Guida e alcuni colleghi del mondo education. Un passo educativo, dice, è innanzitutto un “passo dentro” di sé e, così, può diventare anche un passo avanti. Senza dogmatismi, ma con tanto pensiero divergente
«Se educare non significa svolgere programmi, applicare protocolli, ripetere copioni, standardizzare procedure, allora la creatività deve essere una dimensione e una risorsa del lavoro educativo e della professionalità pedagogica». Da questa premessa è nato il libro “Verso una nuova creatività pedagogica”, a cura di Dafne Guida, presidente e direttore generale della cooperativa Stripes e di alcuni professionisti dal 2019 insistono sulla necessità di lavorare in ambito educativo con creatività e pensiero divergente. Nello specifico gli autori coinvolti nel testo hanno in comune il desiderio di interrogarsi sulla eziologia e la fenomenologia della “creatività pedagogica” teorizzata dallo storico pedagogista milanese Riccardo Massa e a più riprese definita come un dispositivo clinico per lavorare in educazione.
L’evento alla base del testo: «Abbiamo voluto mettere in fila un discorso che mette al centro la creatività pedagogica, la esplora e la risignifica, la considera un fulcro essenziale del lavoro educativo e una categoria necessaria per ripensare le professioni pedagogiche», spiega la curatrice.
Dottoressa Guida, l’idea di creatività rischia ancora oggi di conservare, nell’immagine diffusa, tratti di dote speciale, dono appartenente a pochi, prerogativa innata e non acquisibile, vicina all’idea di estro artistico. E invece cos’è?
Ci sentiamo creativi quando osiamo: quando il nostro punto di vista e la nostra prospettiva introducono un cambiamento. Anche inconsapevolmente, ogni giorno compiamo atti creativi, rischiando azioni e parole guidati dal nostro sguardo. Pensiamo a quanto accade non solo con i figli o gli alunni, ma in ogni relazione: possiamo pianificare, ma imprevisti interni ed esterni ci costringono ad adattarci. Per vivere, in sintesi, è necessario essere creativi. Significa mettersi in gioco, osare. Un capitolo a parte merita l’imprevisto pedagogico: l’imprevisto, lungi dall’essere un ostacolo, può rappresentare un’occasione preziosa per promuovere la creatività, il pensiero critico e la capacità di problem solving degli allievi, nonché per rafforzare la relazione tra formatori e formandi.
Il tema centrale non è solamente l’esperienza educativa. Ma anche l’elaborazione critica dell’esperienza professionale, la riflessione sulla identità, competenze e formazione dell’educatore. Ci può spiegare cosa intende?
Tutto ciò che riguarda il “mestiere” educativo – dalla formazione, alle specializzazioni, alle elaborazioni critiche – ha secondo me un’azione comune: quella di cercare il confronto e il dialogo. Senza il bisogno di confrontarsi con qualcuno che possa anche correggerci, l’esperienza educativa rischia di essere autoreferenziale. Per essere noi adulti convincenti con i giovani, dobbiamo vivere anche noi l’esperienza di chi ha ancora bisogno di crescere, di imparare del nuovo, di diventare “più” grande. La formazione di un educatore efficace richiede capacità di riflessione, consapevolezza di sé e dei propri valori, desiderio di sviluppo professionale continuo. A tutto questo, per restare in tema, oggi serve a nostro parere aggiungere il desiderio di essere veri agenti di cambiamento: nei contesti educativi strutturati come a scuola, ma anche nell’extra scuola.
Dicevamo nella premessa che “se educare non significa svolgere programmi, applicare protocolli, ripetere copioni, standardizzare procedure, allora la creatività deve essere una dimensione e una risorsa del lavoro educativo e della professionalità pedagogica”. Ci può spiegare come si fa?
Per non assolutizzare, dico come faccio io e come sono certa fanno molti pedagogisti ed educatori: non restiamo mai soli con i nostri interrogativi e pensieri convergenti, ma ci confrontiamo continuamente. Rivisitiamo eventi educativi alla ricerca di strategie implicite che promuovano il successo formativo; sviluppiamo ipotesi; sperimentiamo strade divergenti; ancora una volta… osiamo.
Qualsiasi guizzo (anche il più geniale), o qualsiasi procedura (anche la più dettagliata) non bastano ad affrontare la complessità e l’unicità della persona umana… la sua creatività appunto. Io credo che se gli educatori, di mestiere o meno, non si mettono insieme per aiutarsi a capire il mistero di chi hanno davanti, facilmente si limitano ad essere precettori. Il segreto dell’educazione creativa, per la mia esperienza, sta proprio nella parola insieme.
In questi tempi, spesso, le logiche efficientiste, produttivistiche, programmatorie e valutative sembrano minacciare il senso del lavoro educativo, la sua qualità e peculiarità. Come invertire la rotta?
Forse prendendosi un altro rischio: quello di essere impopolari. Non solo anteponendo personalmente la persona – con tutto ciò che ha e che non ha – a qualsiasi obiettivo mondano, socialmente riconosciuto utile. Ma anche esplicitando pubblicamente di fare così: in un collegio docenti, o in una riunione tra genitori, o anche sui giornali, quando capita, non avere timore di dare testimonianza che un passo educativo è un passo anche se non ha le pailettes… Un passo educativo è innanzitutto un “passo dentro” di sé e, così, può diventare anche un passo avanti.
E ancora, io credo che la valutazione debba perdere il suo portato giudicante, connotandosi sempre di più come un processo per dare valore alle pratiche virtuose. Solo così possiamo davvero promuovere il mestiere educativo.
Ci sono oramai interi scaffali di biblioteche sull’argomento. Si è detto e scritto tutto, o quasi. Oppure, il suo contrario. Sia come sia, va da sé che l’impossibilità del mestiere d’educare è raddoppiata, da una crisi interna al discorso educativo medesimo. L’educatore, qui, cosa può fare?
Affrontare la crisi del discorso educativo non è un compito facile, ma non è impossibile. Gli educatori che sono disposti a riflettere sul proprio lavoro – ad adottare nuovi approcci e a collaborare con i colleghi – possono fare la differenza nella vita degli studenti e contribuire a costruire un futuro migliore per la nostra società. Gli educatori e le educatrici possono tenere botta alle contraddizioni, o agli ostacoli, solo se si mettono insieme. Tanto più quando sono richiesti sacrifici o fatiche, è umano condividerle e, in tale condivisione, non mollare, non arrendersi. Nel bene e nel male, io credo che il senso di qualsiasi cosa lo si regga insieme. In nessun ambito la solitudine costruisce. Imprescindibile però è trovare il modo di dare identità, dignità e valore al lavoro educativo anche in termini prosaici, ad esempio sotto forma del giusto riconoscimento economico.
Il saggio di Angelo Villa, contenuto in questa raccolta, spiega come «la creatività per l’educatore è un’esigenza, una necessità logica, per la sopravvivenza dell’educando, ma anche per quella stessa dell’educatore». In che senso?
Rispondo con una domanda: ma non è forse così in ogni giorno della vita? Bambini o adulti, educatori o educandi, tutti noi sentiamo il bisogno irrefrenabile di novità, di nuovi inizi che facciano sentire la vita per quello che è nel suo profondo: sempre neonata direi… sempre nuova. Nello specifico Angelo Villa – che è anche direttore scientifico dei centri clinici della nostra cooperativa – spinge le educatrici e gli educatori ad interrogarsi su quanto sia “vitale” l’esperienza di interrogarsi e di scoprire nuovi linguaggi, nuove strategie, nuove soluzioni.
Il volume è stato prodotto da Stripes, con il contributo del Centro Studi Riccardo Massa. di Anna Rezzara, Dafne Guida, Francesco Cappa, Antonio Catalano, Angelo Villa, Michela Brugali, Chiara Zappa, Raffaele Mantegazza, Igor Guida, Andrea Marchesi, Alessia Todeschini, Cristian Sarno, Nicoletta Caccia, Maria Piacente.
Foto in apertura, di Photo Boards su Unsplash
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