Politica
Un piano di ripresa per la politica Italiana
In un Paese dove crolla la partecipazione al voto e i partiti non sono più in grado di intercettare la domanda di politiche adeguate alla modernità, non si può continuare a fingere che tutto sia come prima. Do dove ripartire allora? Da nuove forme di partecipazione e dal dialogo fra diversi
Nel giro di meno di un mese la nostra democrazia ha subito tre colpi pesanti, che non andrebbero letti come “fatti a sé”, o “notizie orfane”, come le definiva Umberto Eco, ma come unica trama di una crisi in atto a cui proporre rimedi urgenti quanto la programmazione del PNRR.
Nelle tornate elettorali delle Comunali, abbiamo raggiunto il minimo storico della partecipazione popolare al voto dal 1993 ad oggi, da quando l’elezione diretta del primo cittadino, voluta fortemente da Mario Segni, aveva risvegliato una nuova voglia di “contare”. Con il voto diretto del Sindaco, si auspicava che la città non fosse più divisa in fasce di potere in mano ai partiti, ma che il “potere” fosse direttamente nelle matite di tutti i cittadini che tornavano ad essere protagonisti della vita cittadina, sul modello di Atene. Ventotto anni dopo, a questo rito sacro della partecipazione democratica ha partecipato molto meno della metà delle popolazioni chiamate al voto.
A Roma e Torino la scelta del sindaco è stata determinata principalmente dalla mobilitazione dei quartieri benestanti ed ultrabenestanti, mentre la partecipazione democratica è crollata nei quartieri popolari, come Tor Bella Monaca nella capitale e Barriera di Milano nel capoluogo piemontese. Complice certamente la débâcle di quella grande innovazione e speranza, accesa e poi silenziata, che era rappresentata dal Movimento 5Stelle, che in quei quartieri popolari aveva stravinto nel 2016. Ma l’ascesa stessa dei Cinquestelle si innestava nella crisi della democrazia dei partiti, tant’è che quando il Movimento ha assunto le vesti di un partito tradizionale è stato travolto come gli altri, per cui si può dire che l’argine del M5S aveva solo retto per un po’ il funzionamento del gioco democratico, che ora pare definitivamente crollato.
Negli stessi giorni in cui si votava, quasi per congiunzione astrale, entrava in scena più forte di prima un conflitto antico ma dai contorni nuovi, quello tra scienza e pensiero popolare. La società scientifica non può offrire alla comunità politica la certezza che il vaccino anticovid debba diventare obbligatorio come quello contro la poliomielite (ci vogliono più anni per arrivare a questa certezza), ma offre al contempo una chiara ipotesi probabilistica che il vaccino riduca drasticamente i contagi) mentre una parte del popolo non ci sta e vuole dichiarare, sia in modo non-violento che violento, la propria libertà di autodeterminazione in materia di prevenzione sanitaria. Le frange estremiste di questo “non dialogo” ne approfittano per emergere e cavalcano il muro contro muro; le frange pacifiste del dissenso, disposte autenticamente a dialogare, sembrano essere condannate ingiustamente a rimanere afone nel mainstreaming mediatico generale, come anche Michele Santoro, giornalista accorto e laico, ha fatto notare.
Intanto, il 15 ottobre arriva l’obbligo del Green Pass. L’Italia risponde bene, ma le tecniche e le pratiche per affrontare il dissenso sembrano ferme all’uso degli idranti e delle parole forti e delle invettive. Nessun Comune ha organizzato piazze di dibattito, così come poche imprese hanno allestito veri momenti di confronto dentro la comunità aziendale tra le diverse fazioni pro-greenpass e no-greenpass, per trovare accordi sulla necessità dei tamponi e la garanzia dei turni di lavoro. Dove il dialogo c’è stato, i racconti sono tutti edificanti. Dove il dialogo è mancato, sono fioccati certificati di malattia, se non veri e propri scioperi.
Sempre in questi intensi quindici giorni, arriva la doccia fredda sul DDL Zan, tra l’incredulità e la rabbia di chi sentiva di avere la vittoria già in tasca e gli schiamazzi sguaiati di un gruppo di parlamentari che senza aver vinto nulla festeggiano una vittoria. La “tagliola”, che rimanda di sei mesi la discussione su una nuova legge sul tema, non è una legge approvata, ma una “melina” severa quanto inutile perché quella palla, prima o poi, tornerà al centro campo e bisognerà decidere come giocarla. Anche in questo caso, sembra che il criterio cardine della democrazia, cioè il dialogo e l’ascolto tra le parti avverse, sia stato fatto saltare.
Eppure, il parlamento cinque anni fa aveva votato come grande successo la legge Cirinnà sulle Unioni Civili, rimandando il tema della stepchild adoption su cui il dibattito è ancora vivo – e dieci anni prima la legge sui PACS, Patti di convivenza civile e solidale, pur naufragata per la caduta del governo Prodi, aveva in ogni caso tenuto alto il dibattito. Pochi giorni fa avremmo potuto finalmente avere una legge contro l’omofobia e la discriminazione delle persone con disabilità, ma con il muro contro muro è crollata l’intera casa che si stava costruendo insieme.
Ora da dove dobbiamo ripartire? Probabilmente dal primo dato: in un paese dove crolla la partecipazione al voto e i partiti non sono più in grado di intercettare la domanda di politiche adeguate alla modernità, non si può continuare a fingere che tutto sia come prima.
Se si sceglie di ripartire dall’ascolto e dal dialogo per promuovere più partecipazione anche alle nuove leggi e per renderle più aderenti ad una realtà sociale che richiede attenzione nei confronti di “diritti di cittadinanza” più consapevoli e mutati rispetto al passato, allora l’argine vero si chiama “civismo”.
Non un civismo “di maniera”, che appare furbescamente sotto elezioni con le spoglie di un partito improvvisato. Un civismo inteso e vissuto come servizio politico alle città, non in alternativa ai partiti ma in loro sostegno in questa fase così buia della partecipazione popolare al confronto pubblico.
I partiti hanno armi spuntate per provocare riflessioni aperte e devono ricostituirsi per avere nuovo appeal sugli elettorati urbani, con cui devono rieducarsi ad affrontare la fatica del dialogo permanente e non solo a fini elettorali, riprendendo il proprio ruolo di mediatore e di rappresentanza delle “parti sociali”.
Il civismo nel frattempo può contenere la frana, come il cittadino Neemia si diede da fare per contenere il degrado delle mura di Gerusalemme, quando nessuno sembrava importarsene.
Ma guai a considerarlo come“il taxi per partiti deboli”: il civismo non sostituisce i partiti, ma li supporta nell’incapacità di saper tessere dialoghi nuovi, è una forma nuova e contingente che può colmare il guado della non-politica, mettendo al centro l’arte del dialogo tra posizioni diverse che abitano in carne ossa nelle fabbriche e nelle strade, sulla rete e in un condominio, cittadini che assai raramente si trovano a discutere dei temi dentro le sezioni locali dei partiti.
Abbiamo sei mesi di tempo per una nuova proposta su omofobia e discriminazione delle disabilità, ma anche per tornare a dibattere su ius soli e ius cultura. Sei mesi per una riflessione pacifica tra provax, indecisi e novax; per programmare le prossime comunali in maniera diversa, spingendo tutti, prima di tutto, verso il “partito unico del dialogo tra diversi”, anche con chi oggi dai quartieri popolari vota solo ad estrema destra. Non dobbiamo perseguire una vittoria sull’altro, perché se continua così abbiamo già perso tutte e tutti, dobbiamo tendere ad un piano nazionale di ripresa e resilienza della politica che guardi al 2026 e punti ad una vittoria collettiva chiamata: “partecipazione al dibattito”.
*presidente del Movimento “Civico22”
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