da pagina 43Nel caso di un’impresa sociale ad essere particolarmente sollecitati sono due fattori: il funzionamento della governance – che ha basse barriere all’ingresso ed è tendenzialmente diversificata – e l’architettura di un sistema informativo capace di veicolare a più livelli dati esperienziali e conoscenze che sono soprattutto nella testa – e forse anche nelle motivazioni – di persone che intervengono nei processi di produzione e consumo, spesso mixando i ruoli.
A fronte di queste esigenze l’idealtipo del “campo di fragole” ha fatto la parte del leone: tante organizzazioni di piccole e piccolissime dimensioni tenute in rete dalle agenzie consortili. Oggi però si delineano percorsi diversi, in qualche caso alternativi che derivano in parte dalla crescita delle competenze e dalla disponibilità di nuovi strumenti con cui fare “design organizzativo”.
Quando fu teorizzato il modello reticolare, la gran parte delle imprese sociali era in stato nascente. Oggi c’è uno zoccolo duro con decenni di attività sulle spalle e che ha attraversato molte fasi del ciclo di vita.
Ma sono anche le dinamiche del contesto a sollecitare i parametri dimensionali: il rispetto di standard qualitativi sempre più elevati, la necessità di “marchiare” le proprie specificità, la natura non solo locale ma transnazionale dei fenomeni su cui si interviene, l’emergere di nuovi concorrenti e alleati.
Solo rispondendo a queste e altre questioni si definirà quanto è grande o piccola un’impresa sociale. Basti pensare a quel che è successo alle piccole imprese for profit qualche anno fa, all’avvento della globalizzazione. Molte hanno subìto la crisi, altre hanno fatto scelte di sviluppo che le hanno aggregate in distretti più coesi trasformandosi in piccole / grandi “multinazionali tascabili” che oggi costituiscono l’eccellenza del sistema produttivo nazionale.
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