Formazione

Un Paese in stampelle

Pochi vogliono dimenticare migliaia di mutilati e due milioni di morti. Ma c’è chi, perse le gambe, ora ha uno scopo: preparare atleti disabili alle Olimpiadi

di Redazione

Processo o no per i due capi dei Khmer rossi? Khieu Samphan e Nuon Chea si sono «arresi» sul finire del ?98. Hun Sen, primo ministro cambogiano, li ha accolti con tutti gli onori. Il re, Norodom Sihanouk, invece chiede un processo. Hun Sen, no. «Se li porteremo in giudizio», ha sostenuto il primo ministro, «sarà il ritorno della guerra civile. Meglio seppellire il passato per guardare al futuro. Ci vuole un mazzo di fiori per entrambi, non un proiettile o le manette». Eppure i cambogiani il passato non l?hanno seppellito. La resa dei capi Khmer fa tornare alla mente quei terribili anni Settanta, il genocidio messo in atto da Pol Pot, morto l?anno scorso. E i segni sono ancora presenti, a ogni passo, in ogni via di Phnom Penh. Al vecchio mercato russo stazionano mutilati, saltati sulle mine. Si vestono delle divise militari per far vedere, ce ne fosse bisogno, che sono gli eredi di un genocidio. Chiedono con gli occhi disperati di chi non ha futuro, nulla da dirti se non la sua mutilazione. Due milioni di morti, centinaia di migliaia di mutilati, eppure i capi dei khmer rossi ora si sollazzano in un albergo di lusso della capitale, dicendosi «dispiaciuti, non solo per le vite umane, ma anche per quelle animali perdute». Di pace e riconciliazione hanno bisogno i cambogiani, ma non è possibile dimenticare il passato. Qui tutto è contraddittorio. Come il museo Tuoi Sleng di Phnom Penh, l?ex prigione dove sono morti in 17 mila. Sulle pareti delle stanze del genocidio, le foto delle vittime e degli orrori dei Khmer rossi. All?entrata stazionano ex militari, civili, amputati dalle mine, che tendono la mano chiedendoti qualche riel. Li trovi ovunque i «segni viventi» di una guerra assurda, brutale. Varcata la soglia di quello che dovrebbe essere il monumento del genocidio cambogiano, ti imbatti nella casa-bazar. Ti offrono collanine, artigianato, bibite e cartoline mischiate a libri sul genocidio, a foto che ritraggono i condannati a morte. Tutto insieme, a mostrare che storia e presente convivono. Tuon Set Meth, 48 anni, una moglie e sei figli, è un sopravvissuto. Ex militare di Lon Nol, è ?saltato? su una mina: ora si arrangia con un sussidio di 35 dollari al mese e vive in uno scantinato dello stadio della capitale. Il suo compito: allenare la selezione per le Olimpiadi degli handicappati di Sidney 2000. Lui è sopravvissuto perché ha finto di essere matto: ballava, cantava, faceva divertire i comandanti ?rossi? e soprattutto lavorava. Ha visto la morte centinaia di volte. «Vivere oggi, poteva significare morire domani», dice Tuon Set Meth. «Bastava accettare del riso da una persona di un altro campo, e subito diventavi un nemico. Ti dicevano: piccolo errore, devi morire. Ma i capi, proprio perché facevo il matto, mi hanno sempre risparmiato». Zaras, la moglie, con in braccio il figlio più piccolo, lo guarda con orgoglio: «Non abbiamo voluto figli», dice, «mentre eravamo nei campi di lavoro. Che futuro potevamo dargli?». Ora Set Meth dedica le sue giornate ai giovani handicappati. Da qui passa la sua speranza che la Cambogia possa vivere in pace.


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