Cultura
Un ottimo interesse
Dopo anni di steccati e diffidenza tra terzo settore e mondo creditizio si sta voltando pagina. Le banche puntano sul non profit perché lo hanno scoperto affidabile
E’ un po? come tra genitori e figli quando prima ci sono incomprensioni, conflittualità, porte sbattute. Poi però subentra il dialogo, scatta la ?fase due?, le divergenze si ricompongono e i rapporti diventano forti e ?complici?. Anche tra banche e non profit sta andando più o meno così. Per anni la nota dolente del terzo settore italiano è stata la sua grande difficoltà ad avere accesso ai canali tradizionali del credito. Magari anche per la semplice ragione che le banche non sapevano cosa fosse davvero il non profit. Fabio Salviato, presidente della Banca popolare etica, più di una volta ha raccontato la reazione di sgomento che ebbero i dirigenti della Banca d?Italia quando si recò per la prima volta in via Nazionale a esporre il progetto di una banca per il terzo settore: «E voi chi siete??, ci chiesero», ama ricordare Salviato, «visto che non eravamo riconducibili a nessuna delle tre P considerate condizione essenziale per costituire una banca: padrone, padrino, partito».
Diffidenti ma non troppo
Da qualche tempo le cose, per fortuna, non stanno più così. Rimane, certo, ancora una buona dose di diffidenza. Come, peraltro, ha evidenziato eloquentemente la ?mappatura? del microcredito in Italia della società di consulenza Borgomeo&Co (Vita n. 30/2005), dalla quale è emerso che i programmi che si avvalgono di impieghi bancari utilizzano nell?86% dei casi la garanzia pubblica (come a dire che, anche su piccoli prestiti, le banche cercano supertutela).
Ma, nel complesso, passi in avanti sono stati compiuti. «Le relazioni tra banche e non profit ci sono e sono anche a uno stadio piuttosto avanzato», sottolinea Gian Paolo Barbetta, economista della Cattolica di Milano e membro dell?Agenzia per le onlus, «alcune peculiarità delle organizzazioni non profit, come per esempio la circostanza che non di rado sono sotto patrimonializzate, rende forse un po? più difficile l?affidamento, ma i rapporti ci sono. Rimane un problema di conoscenza reciproca, sono mondi che a volte fanno fatica a comunicare, ma non siamo di sicuro all?anno zero».
Buone relazioni confermate dal fatto che tutti i grandi gruppi bancari, come leggete in queste pagine, hanno prodotti che si rivolgono al non profit. E, comunque, puntano, chi più chi meno, a fare rete. Come nel caso di Unicredit che, pur essendo il primo gruppo bancario italiano per capitalizzazione di Borsa e vocazione internazionale, ha promosso la nascita in varie aree del paese di comitati locali (finora sono una ventina) cui partecipano personalità (ad oggi, circa trecento) espressione della società civile, allo scopo di offrirsi come interlocutore ?privilegiato? per lo sviluppo socio-economico locale.
Prodotti finanziari innovativi
Semmai la questione è un?altra. E, cioè, che ormai non bastano più i prodotti ?tradizionali?, ossia la mera erogazione di credito, sebbene di entità progressivamente crescente. Ma ci vogliono anche prodotti ad hoc offerti dalle varie società finanziarie, specializzate settorialmente, che fanno parte di un medesimo gruppo creditizio: «Mentre per ciò che riguarda il profit vale la legge di Keynes, ossia è la domanda a creare l?offerta», spiega Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all?università di Bologna, «nel mondo del non profit vale la legge di Say (dal nome dell?economista che l?ha teorizzata, ndr), ossia è l?offerta che crea la domanda. Fino a che ci ostiniamo a pensare che, allo scopo, possa bastare la sola Banca etica, allora non ci siamo. Ci vogliono grandi banchieri che sappiano rischiare e non, invece, bancari che sanno solo applicare in modo stantìo le tecnicalità che hanno appreso magari vent?anni fa».
«Devono scendere in campo tutti e quattro i grandi gruppi bancari italiani», auspica Zamagni, «e devono saper approntare strumenti con cui fronteggiare il problema della ?traversa?, nel senso che all?improvviso nella vita delle singole persone, così come delle organizzazioni non profit, possono verificarsi eventi che fanno nascere un bisogno urgente di finanza a cui non si può non dare una risposta pronta e soddisfacente».
Un destino segnato
Una necessità, quella di prodotti finanziari sui generis per il terzo settore, condivisa da Luciano Balbo, pioniere della venture philantropy in Italia, presidente della Fondazione Oltre e di Cgm Finance: «L?incontro tra banche e non profit è un destino segnato», afferma, «ogni attività economica ha bisogno di servizi finanziari dedicati e oggi il non profit va assumendo sempre di più natura ?produttiva?. Già oggi il tema dell?accesso al credito non è più un tabù, si pensi alle banche locali o alle Banche di credito cooperativo. Semmai il vero ostacolo rimane laddove le banche hanno poca conoscenza del non profit e questo, a sua volta, si rivela un ?illetterato? di finanza, anche perché non tutte le organizzazioni possono permettersi un direttore finanziario. Ma lavorando bene su questi fronti, le due parti non potranno che incontrarsi».
Come andrà a finire? Cosa accadrà, perlomeno nel medio periodo? Le banche osserveranno la legge di Say?
Da una recente indagine di Newfin-Centro studi sull?innovazione finanziaria della Bocconi è emerso che più di un bancario su due (53%) ha un sogno: che del suo istituto si dica «che tratta meglio i clienti». E il 13% vorrebbe che la fama della sua banca dipendesse dall?essere «attenta ai valori etici».
Il non profit, si sa, è uno straordinario veicolo reputazionale. Quindi, con un po? più di capacità di ascolto alle sue esigenze e con competenze all?altezza, per molti di loro questo sogno non dovrebbe risultare poi così difficile da realizzare?
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