L’ultimo ad occuparsene è stato pagina99. “Eataly divora Slow Food” è un bel titolo di un approfondito reportage su un tema controverso e di grande attualità. L’impresa fondata da Oscar Farinetti cresce a ritmi vertiginosi aprendo negozi su negozi in Italia e all’estero. Al di là delle polemiche – ad esempio sui contratti di lavoro – e delle invidie – che colpiscono chiunque abbia successo in questo paese – l’aspetto più interessante è che il “motore” di Eataly è nonprofit. In altri termini Eataly è un’iniziativa che “industrializza” elementi di cultura e di servizio di un’associazione (di origine Arci) che peraltro contiene chiari elementi di imprenditorialità sociale.
“Io so vendere ma senza i vostri prodotti non ce la farò” pare abbia detto Farinetti al fondatore di Slow Food Carlin Petrini, convincendo quest’ultimo a sottoscrivere l’accordo che è alla base del successo di Eataly. E così un’operazione che della nicchia (e non solo in termini alimentari ma di un certo elitismo) e del procedere “slow” ha fatto la propria missione fa ora da propellente per un’industria che cresce ai ritmi accelerati di una start-up. Un bella tensione, considerando che comunque gli elementi identitari di Slow Food sono tutt’altro che diluiti nell’iniziativa di Farinetti e anzi trovano elementi di contatto con realtà – come GAS – e con pratiche – la coproduzione – che muovono in tutt’altra direzione (anche conflittuale).
Davvero un bell’insegnamento per l’impresa sociale. Che fin qui ha fatto fatica a industrializzare il proprio modello di servizio oltre la dimensione locale. Basti pensare alle difficoltà incontrate da marchi, e sistemi di franchising lanciati dall’imprenditoria nonprofit. Tutti strumenti che nelle intenzioni di chi li utilizza servono proprio a scalare l’offerta di servizi. Per non parlare della capacità di intercettare risorse finanziarie da destinare a investimenti strutturali. Eppure questo è il tempo dell’impatto su ampia scala. E non è quindi da escludere che nel prossimo futuro sorga un Oscar Farinetti del sociale in grado di proporre un modello industriale per alcuni settori chiave dell’impresa sociale. Collaborando – come nel caso di Slow Food – o competendo.
I casi, anche se micro, non mancano. A Milano, a pochi metri di distanza, ci sono due poliambulatori: uno gestito da cooperative sociali e l’altro da un venture capitalist. Ma la partita potrebbe spostarsi anche su altri terreni. Ad esempio l’economia dell’inserimento lavorativo che fino ad oggi rappresenta un asset esclusivo della cooperazione sociale, ma non è detto che possa interessare anche aspiranti industriali del sociale attratti da molteplici aspetti: il valore sociale eplicito (facilmente rendicontabile), la qualità della produzione (si pensi ad esempio ai prodotti in ambito carcerario) e, non da ultimo, il basso costo del lavoro (spesso l’inserimento lavorativo è l’ultima linea di frontiera prima della delocalizzazione).
Se si leggono in quest’ottica, le proposte di modifica alla legge sull’impresa sociale assumono ben altra rilevanza rispetto al dibattito interno alle varie anime del nonprofit. In ballo, infatti, c’è la ricerca di un nuovo Oscar…
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