Lavoro

Un nuovo prezzo per il lavoro sociale

Il nuovo contratto delle cooperative sociali rischia di essere un gioco dove perdono tutti: i lavoratori e le cooperative. Serve un cambio di passo radicale: quello di dare valore (e prezzo) al lavoro di cura per gli effetti che produce. La cooperazione sociale può essere protagonista del cambiamento, chiedendo di farsi misurare per quel che produce

di Massimiliano Ferrua

Alla notizia dell’avvenuto rinnovo del Contratto collettivo nazionale per i lavoratori della cooperative sociali, si sono moltiplicati i commenti, gli allarmi, le analisi, le previsioni, tutte tanto incerte quanto preoccupanti. Le “parti” pubblicamente si dicono soddisfatte, ma gli stessi che accolgono come dovuto e giusto il rinnovo ammettono che esso non risolverà i problemi fondamentali: la distanza siderale tra complessità e rilevanza dei servizi realizzati dai lavoratori delle cooperative sociali e i loro redditi, l’equità dei trattamenti sul territorio nazionale anche – e almeno – in riferimento a quelli riservati agli operatori sociali alle dipendenze degli enti pubblici, la capacità del sistema della cooperazione sociale di offrire collocazioni lavorative sicure nel tempo.

Più in generale, si può affermare che il nuovo contratto certamente non emancipa i lavoratori delle cooperative sociali dal rischio di essere dei “poveri al lavoro” e altrettanto certamente  rende più vulnerabili le cooperative sociali che dovranno garantire gli adeguamenti contrattuali a prescindere dal (discrezionale) adeguamento  di tariffe e prezzi dei servizi da parte degli enti pubblici committenti.

Andiamo quindi incontro a un gioco a somma negativa distruttiva, dove non solo tutti perdono, ma molti rischiano anche di perdere così tanto da scomparire: i lavoratori migrando fuori dalla cooperazione e magari anche fuori dalle professioni sociali, le cooperative passando attraverso collassi finanziari che ne spegneranno il peculiare ruolo di attore di cittadinanza per i loro soci e per i loro utenti, gli enti pubblici riducendosi  a gestori di risposte burocratiche per bisogni complessi incistati in comunità cangianti e liquide.

Andiamo incontro a un gioco a somma negativa distruttiva, dove non solo tutti perdono, ma molti rischiano di perdere così tanto da scomparire

Il nuovo Contratto non crea questo scenario di rischio, semplicemente impone uno scarto in un sistema che, se è vero che era già fortemente svalutante nei confronti dei lavoratori “del sociale” in genere, era quasi denigratorio verso chi esercita queste professioni nelle cooperative. Il rinnovato Ccnl non è quindi una novità e men che meno si candida ad essere risolutivo né nel breve né nel lungo periodo: al più può funzionare come evidenziatore di una concezione socio politica distorta e deformante, quella del disprezzo del lavoro sociale contro il suo altissimo valore funzionale. Una concezione pregiudiziale che in Italia continua a riversare i suoi effetti su circa 400mila cooperatori.

Viene allora il dubbio che quel che serve non sia un compromesso, ma piuttosto un capovolgimento sociale, capace di riqualificare e apprezzare il lavoro sociale, proprio a partire da quello svolto nelle cooperative sociali: serve una visione (e una programmazione) alternativa e rivoluzionaria, a partire da cosa potevamo imparare (e ne abbiamo persa l’occasione) nel periodo della pandemia Covid-19.

Il rinnovato Ccnl è l’evidenziatore di una concezione socio politica distorta e deformante, quella del disprezzo del lavoro sociale contro il suo altissimo valore funzionale

Riconoscere il lavoro sociale per quanto vale

Nel 2022 è uscito in Italia il libro di David Goodhart dal titolo Testa Mano Cuore – La valorizzazione del lavoro nelle società del XXI Secolo (Treccani). Scritto nel pieno della crisi legata alla diffusione del Covid-19 (l’edizione inglese è del 2020), questo testo mette a fuoco una contraddizione radicale, evidente  proprio nel corso dell’esperienza pandemica: «questa crisi consentirà alla mano (lavoro manuale/ occupazioni di base) e al cuore (lavoro di cura) di rivendicare in vari modi una parte del prestigio e delle gratificazioni ceduti negli ultimi decenni alla testa (lavoro cognitivo)».

L’analisi è dettagliata e documentata, ed è focalizzata su un grave disequilibrio a cui l’autore ritiene si debba porre urgentemente rimedio: «la moderna economia della conoscenza ha generato un ritorno sempre maggiore per i lavoratori “della testa”– con titoli di studio elevati – e ha ridotto i salari relativi e lo status di molti lavoratori manuali (“la mano”). Allo stesso tempo, molti aspetti del lavoro di cura (“il cuore”), tradizionalmente affidati alle donne nell’economia del dono a livello familiare, continuano a essere sminuiti nonostante il settore della cura sia diventato una parte sempre più essenziale dell’economia pubblica e sia stato così ampiamente applaudito (nel senso letterale del termine) all’apice della crisi». L’autore scrive nel cuore della crisi, e ammette che «è ancora troppo presto per stabilire se la crisi da Covid-19 contribuirà a riequilibrare le attitudini basate su testa, mano e cuore. Raggiungere un equilibrio, però, è indispensabile». Nel 2024 possiamo sicuramente affermare che la crisi non ha contribuito al riequilibrio, ma piuttosto lo squilibrio è ancor aumentato e non certo a causa del Covid-19.

È urgente restituire status alla “mano” e al “cuore”, riducendo la distanza con la “testa”. Nell’innescare una così profonda innovazione, la cooperazione sociale può fare il primo passo: può rendere misurabili i suoi effetti sulla società

La suggestione però rimane, ed è rivoluzionaria: è urgente restituire status alla “mano” e al “cuore”, riducendo la distanza con la “testa”, e per farlo occorre metter mano alla struttura della società. Se questo succedesse (se una responsabile dei servizi sociali godesse dello status e del reddito di un Procuratore della Repubblica, se un educatore professionale fosse pari a un ingegnere gestionale, un oss pari a un avvocato), sono intuibili a cascata gli effetti sull’importanza percepita del lavoro sociale, così come sull’affluenza alle professioni, la diffusione della ricchezza e l’aumento generale del benessere sociale. Per innescare a una così profonda e radicale innovazione, la cooperazione sociale può fare il primo passo: può interpretare la “funzione sociale” che le affida il dettato costituzionale, rendendo misurabili i suoi effetti sulla società.

La sussidiarietà per stabilire il valore del lavoro sociale: cosa può fare la cooperazione


Riequilibrare le condizioni di status nel modo accennato significherebbe affrontare una vera e propria ristrutturazione sociale, che inevitabilmente colpirebbe interessi acquisiti e metterebbe in discussione processi fortemente istituzionalizzati: dunque conflitti, lacerazioni, crisi nei sistemi e nelle relazioni, smarrimenti… e infine nuove aggregazioni, nuovi processi in contesti radicalmente modificati, e una geografia di status/valore più correlata al valore prodotto che a quello idealizzato. Per accendere questi processi ristrutturanti, la cooperazione sociale ha davanti a sé una spazio di protagonismo: attrezzarsi per far misurare il proprio lavoro, chiedendo che sia misurato non tanto o non solo per quanto costa, ma piuttosto per quanto vale, cioè quanto valgono gli effetti che produce.

La cooperazione sociale italiana nella sua storia non ha puntato molto sul farsi misurare per quel che produce, ha generalmente preferito affermare il valore ideale e politico del suo stesso esistere, puntando a ottenere un riconoscimento certo e durevole indipendentemente dagli effetti concreti delle sue attività misurati in modo oggettivo e scientifico. In sostanza si è preferito scommettere su appoggi socio politici identitari e indiscutibili: la discriminazione positiva perché dalla parte degli ultimi, oppure perché soggetti mutualistici e quindi valore in sé nelle nostre società, oppure perché capaci di ricucire lacerazioni sociali e quindi generatori di coesione sociale.

Finora si è preferito scommettere su appoggi socio politici identitari: essere dalla parte degli ultimi, essere soggetti mutualistici e quindi valore in sé nelle nostre società, essere generatori di coesione sociale

Tutte attribuzioni di ruolo certamente vere, ma poco misurabili al di là dell’evocazione spendibile in uno storytelling anche convincente, ma poco dettagliabile come valore specifico (anche economico). Eppure esistono realtà cooperative coinvolte in esperienze di misurazione scientifica degli effetti, sostenute da Centri di ricerca e Fondazioni capaci di immaginare la sussidiarietà della cooperazione sociale come contributo alle policy pubbliche proprio attraverso l’attivismo verso la misurazione scientifica degli effetti del lavoro sociale.

Ma perché come cooperatori dovremmo puntare sul farci misurare in questo modo, rischiando magari di scoprire – come accade in ogni contesto dove si applica con rigore la valutazione scientifica – che il nostro modo di fare servizio sociale in un contesto, in relazione a quello implementato da un altro operatore economico, magari non solo non serve, ma anzi è dannoso per gli utenti che accogliamo?

Intanto perché ogni cooperatore che lavora nel sociale lo intuisce, ma non ne ha le prove: intuisce l’enorme sperequazione tra quanto viene pagato e il valore che produce il suo lavoro, ma non ha pubblicazioni, ricerche, esperti che attestano in modo scientifico il plus valore  E-CO-NO-MI-CO (e inconfutabile) che questo produce. E poi anche per coerenza deontologica rispetto a un ruolo sociale e politico che deve trovare una sintesi sostenibile: “mi spendo in una cooperativa sociale in lavori complessi e delicati per far recuperare cittadinanza ai miei utenti, e quindi sono il primo interessato a far sì che i soldi pubblici siano spesi copiosamente dove è provato che servono, e siano invece sottratti dove viceversa non servono o fanno danni”. Ma infine, e più di tutto: per restituire correttamente il valore tangibile degli effetti del “buon” (efficace) lavoro sociale a chi lo produce (gli operatori sociali con le loro organizzazioni), affidando la definizione di questo valore tangibile a sistemi di valutazione pubblici, oggettivi, coerenti e accreditati dalla comunità scientifica.

La rivoluzione non si balla da soli: la dimensione pubblica del cambiamento

Questo “primo passo” della cooperazione sociale sarebbe però inutile senza un sincronizzato cambio di assetto  e di movimento degli enti pubblici che affidano al Terzo settore i servizi alla persona: per i nostri politici si tratterebbe di rifondare il sistema degli investimenti e i conseguenti affidamenti, partendo da avvalorare il lavoro di cura al suo esito per gli effetti che produce, ricostruendo i bilanci (comunali, regionali e statali) perché prima di tutto lì si materializzi il pareggio tra il lavoro sociale e gli altri investimenti pubblici.

Per gli enti pubblici si tratterebbe di rifondare il sistema degli investimenti e i conseguenti affidamenti, partendo da avvalorare il lavoro di cura al suo esito per gli effetti che produce

Certo la sfida pubblica sarebbe così rilevante da dover richiamare la mobilitazione della comunità scientifica per nuove teorie socio economiche capaci di illustrare il valore – di status ed economico – di questi lavori sulla base di ricerche empiriche sui suoi effetti. Questi contributi saranno però fertili se approderanno ai tavoli di amministratori pubblici intenzionati e competenti: intenzionati a sostenere il concetto del lavoro sociale non come consumatore riparativo di risorse pubbliche, ma piuttosto come investimento capace di produrre ricchezza, e competenti nella lettura e analisi di dati empirici sugli effetti delle politiche sociali sul proprio territorio.

Se il cambio di passo fosse sincronizzato, ci sarebbero allora le condizioni per una nuova alleanza pubblico-privata, capace di attutire le diffidenze e le incomprensioni di ruolo oggi evidenti mentre diventa operativo il nuovo Ccnl delle cooperative sociali e particolarmente avanzata – in quanto imperniata sul valore scientifico e pubblico degli effetti – sul tema della qualità e trasparenza degli affidamenti di risorse pubbliche alla cooperazione sociale. È inoltre intuitivo quanto questa “danza” differente porterebbe a cascata a rivalorizzare l’intero sistema legato ai servizi alla persona (gli attori pubblici che con propri operatori intervengono nel settore, le Università che si occupano di formazione, le associazioni di utenti che realizzano attività di pubblica utilità, ad esempio associazioni e fondazioni di famigliari che operano per progetti “Dopo di noi”).

Sono prevedibili le critiche alla linea di ragionamento qui esposta: troppo semplicistica, troppo scientista (il lavoro sociale per l’intangibilità dei suoi risultati è da molti abbinato a un celebre spot televisivo di una carta di credito in cui tutto il sociale rientra in quel “tutto il resto è senza prezzo”, cioè non vale niente), deprofessionalizzante, produttrice di conflitti, irrealizzabile per mancanza di risorse. Si può discutere su ognuno di questi punti per dimostrarne la superabilità, o almeno la gestibilità. Ma sull’ultima, ci permettiamo subito qui una nota per togliere un alibi alla scelta unica del compromesso al ribasso che sembra caratterizzare le attività introno all’implementazione del nuovo Ccnl delle cooperative sociali: cosa succederebbe se si potessero investire in questa (o altra) ipotesi di rinnovo strutturale i 932,3 miliardi di euro di imposte evase in Italia negli ultimi dieci anni? E se a questi si aggiungessero anche solo una parte delle decine di miliardi di euro potenzialmente derivanti da una tassazione sugli extra profitti dei gruppi bancari italiani? Se le risorse non sono teoricamente un problema, possiamo allora rivolgere la nostra attenzione alle intenzioni, per poi verificare (o acquisire) le competenze.

Massimiliano Ferrua è direttore Ricerca e Sviluppo della cooperativa Animazione Valdocco. Foto Conor O’Nolan, Unsplash

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