Il “nobel” per l’architettura (il premio Pritzker) è stato assegnato ieri ad Alejandro Aravena, cileno, classe 1967, curatore della prossima Biennale di Venezia. Un riconoscimento che in un certo senso suggerisce un cambio d’epoca: finisce quella delle archistar che esprimevano la dinamica della verticalità e si entra (finalmente) in quella degli architetti “orizzontali”. La Biennale di due anni fa guidata con genialità da Rem Koohlhas aveva annunciato la svolta. La Biennale che verrà e questo premio, confermano che siamo entrati in una nuova stagione. Aravena è infatti arcihitetto di un tipo nuovo. È uno che ha adottato pratiche innovative non solo nella concezione dei progetti ma anche nelle procedure. Pochi come lui hanno approfondito il concetto di social housing; pochi come lui si applicati a immaginare la relazione tra architettura ed educazione (i suoi progetti di edifici scolastici in Cile sono oltre che bellissimi tutti da studiare).
L’idea di Aravena è che l’architettura oggi non possa essere il prodotto sintetico (e magari sostenibile) di una grande mente immaginativa, ma debba avere il coraggio di essere partecipativa. Lui la definisce architettura aperta. E in una lunga intervista concessa nei mesi scorsi al sito Artribune ha espresso con chiarezza questo suo pensiero. L’architetto, ha spiegato, deve relazionarsi con chi abita, perché chi abita o abiterà è portatore di una «saggezza pratica», da cui non si può prescindere. Ma Aravena va ancora più in là nella sua concezione di social housing: dice che il vero social housing è un progetto aperto. «Preferisco costruire la metà di una casa, perché il progettista, per quanto sia attento ai bisogni degli abitanti, non potrà mai capire fino in fondo le esigenze di una famiglia che non conosce. Per progetti di questo tipo è impossibile pianificare soluzioni personalizzate: bisogna creare sistemi aperti. Ogni famiglia, nel tempo, tenderà naturalmente a crescere, e quindi ad avere bisogno di spazi maggiori. Partendo da questa valutazione, abbiamo cercato la forma più adatta per condurre e stimolare quella capacità individuale di adattamento e crescita».
Questo non vuol dire rinunciare al proprio sapere e al proprio ruolo di architetto: «Questo “trattamento orizzontale” implica che l’architetto abbandoni il senso di colpa che deriva dal suo essere dotato di conoscenze che non tutti possiedono e che, nello stesso tempo, si allontani dal ruolo del “volontario” che spesso tende ad assumere quando ha a che fare con la comunità. Non tutto quello che la cittadinanza desidera o dice è da considerarsi sacro».
Nelle foto: un progetto di Aravena di case ad edilizia sociale flessibile (93 abitazioni) costruite dove c’erano edifici abusivi. La foto sopra è il progetto all’origine, quella sotto invece mostra le espansioni realizzate dagli abitanti.
Per conoscere i progetti di Aravena si può navigare nel suo sito Elemental
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