Mondo

Un miracolo iataliano nel cuore dell’Africa

Africa: Volontari italiani in prima linea per dare una speranza in paesi africani dilaniati da guerre e Aids

di Roberto Beccaria

Lucia e Alberto. Due nomi, due volti, due missionari. Per due anni la prima, per dieci il secondo. Non sono marito e moglie, hanno storie diverse, ma sono entrambi medici. Pediatra lei, chirurgo lui. Lucia è andata da sola in Uganda e lì ha trovato una famiglia. Alberto è sceso nel continente nero con moglie e tre figli, e ora ne ha sei. Due vite che potrebbero essere protagoniste di un romanzo o di un dramma. Un dramma come È mezzanotte dottor Schweitzer, dove Gilbert Cesbron raccontava come un famoso teologo protestante e musicista mollasse il facile successo professionale e musicale per dedicarsi interamente a un ospedale nel Congo francese. Albert Schweitzer non era però felice come lo sono Lucia e Alberto. Forse perché loro non sono mai stati soli.
Siamo in Uganda, sempre in viaggio tra Kitgum, Kampala e Hoima. Un Paese da tempo meta privilegiata della cooperazione internazionale: mai sono mancati i soldi e i progetti per l?Uganda, più raro che qualcuno riuscisse nell?impresa di lasciare traccia di sé. Via i missionari, via la speranza. Ma grazie a Lucia e Alberto questo circolo vizioso si è interrotto: una scuola, un centro di accoglienza per malati di Aids e una officina per manufatti meccanici sono ancora laggiù a testimoniarlo.
Lucia Castelli ha 40 anni e non le bastava rimanere in Italia a fare bene, benissimo, il suo mestiere di pediatra. Voleva che il suo segno rimanesse profondamente nella storia di qualcuno. E così è iniziata l?avventura con una ong italiana, l?Avsi, l?Associazione volontari per il servizio internazionale. Si è occupata dei bambini del Ruanda, di quelli sudanesi dei campi profughi nel nord dell?Uganda, di quelli che riuscivano a sfuggire ai ribelli dello stesso nord ugandese. Ne ha viste di tutti i colori: bimbi che non riuscivano a dormire perché ricordavano gli orrori a cui erano sottoposti o a cui dovevano assistere, famiglie distrutte per una guerra senza ragione, paesi fantasma, abbandonati per non venire uccisi. Tutte vicende ormai note a tutti: quando i giornali ne parlano esistono, prima e dopo no.
Ma di quest?inferno Lucia ricorda anche quel barlume di speranza che ha iniziato a scorrere nelle vene di qualcuno. Di Geoffrey, per esempio. Unico superstite della sua famiglia. Vedovo e non più padre, se non nel suo ricordo. Che cosa c?era di buono in una vita così? Geoffrey l?ha scoperto, anzi l?ha riscoperto. Durante una lezione di uno dei corsi di formazione tenuti da Lucia, Geoffrey era scoppiato a piangere. Il ricordo del suo dolore l?aveva sopravanzato. Per un solo istante, però è riuscito ad ammettere che lui era lì a quel corso, perché aveva trovato in quei volti tanto diversi dal suo – almeno per il colore della pelle – una nuova famiglia. Non la stessa che lui aveva perso, ma più grande. E da quel giorno nessuno l?ha più fermato. Ora è il responsabile di uno dei blocchi del campo dove lavorava Lucia. Lei ora è in Italia, lui in Uganda: ancora legati da un?amicizia invincibile. E dalla certezza che Geoffrey ha ritrovato una famiglia e una speranza.
Proprio la stessa che domina nella storia di Alberto Reggiori, 40 anni anche lui. Era partito per l?Uganda nove anni fa, insieme ad altre quattro famiglie, sempre su iniziativa dell?Avsi: tre medici e due tecnici per ricostruire un Paese distrutto. Quando sono arrivati c?era un ospedale fatiscente e basta. Quando sono venuti via avevano lasciato dietro di sé un ospedale nuovo, 15 dispensari di medicine, 300 nuovi punti acqua – sorgenti e pozzi -, centinaia di serbatoi per l?acqua piovana, servizi igienici ovunque. Ma non è tutto.
Il problema più impellente per le cinque famiglie italiane, incredibile a dirsi, era quello di una scuola per i loro figli. Come Alberto, infatti, anche i suoi amici avevano diversi marmocchi in età giusta per scaldare una sedia e lucidare un banco. Da questa semplice necessità è nata la San Francisco School di Hoima. Prima in una sola stanza, con dieci ragazzini. L?anno successivo decidono di aprirla anche ai bambini ugandesi, ma lo spazio non basta più. Fortunatamente Alberto trova un vecchissimo negozio abbandanato in città. Risalgono al proprietario, gli pagano l?affitto e vi mettono le tre classi della scuola elementare. Da cosa nasce cosa, si sa: tutti iniziano a interessarsi alla nuova scuola. Non solo genitori e figli, ma anche insegnanti. Piano piano i bambini italiani diventano la minoranza. E anche i docenti, sempre più di colore. Grazie anche ai finanziamenti provenienti dall?Italia, circa 200 milioni in 3 anni, oggi la San Francisco School ha sette classi elementari con 35 alunni ciascuna. Il vescovo di Hoima ne è diventato il proprietario, ma ha lasciato la gestione agli amici ugandesi di Alberto. Non era previsto tutto questo successo: all?inizio la scuola voleva essere solo la risposta al bisogno degli italliani di dare un?istruzione ai loro figli. Ma, come detto, da cosa nasce cosa.
Come quella volta che Katherin è andata da Alberto a chiedere lavoro: era vedova e aveva tre figli da mantenere. Alberto non poteva dire sì, perché lavoro non ce n?era. Ma non poteva dire di no: l?avrebbe uccisa prima che l?Aids la portasse via. E, allora, l?ha tenuta con sé, a fare le pulizie, non sapendo nemmeno che era malata. Ma Katherin non poteva tenere nascosto il suo segreto per troppo tempo, e quando l?ha svelato ad Alberto ormai era troppo tardi. Lui e i suoi amici non hanno potuto fare altro che andarla a trovare ogni giorno, in quella che lei chiamava casa e su quell?umile giaciglio che lei chiamava letto. I figli attorno, la mamma disfatta, gli amici stretti a loro. Ninete di più. Eppure, per una strana cosa che Alberto chiama miracolo, proprio da quel ritrovarsi ogni sera in quel luogo è nato il centro di assistenza per i malati di Aids dell?Uganda. Che non sono pochi. Oggi è intitolato a Katherin, che proprio prima di morire aveva ?approvato? l?idea. Anche il ministero della Sanità ugandese si è accorto della ricchezza che era questo centro per tutto il Paese. E ha iniziato a finanziarlo: oggi ci lavorano in molti e riescono ad accogliere più di cento malati e orfani, fornendo i servizi di prima necessità. Tra l?altro, su questo si inserisce anche il progetto di adozione a distanza promosso dall?Avsi. E qualcuno di là, nell?ultimo momento di vita, è arrivato a dire che anche la sofferenza è gioia: un san Francesco ugandese, forse.
O forse un umile di cuore, come un bambino. Un bambino come Simon, che a 16 anni aveva finito la scuola media. Anche lui è andato da Alberto a chiedere un lavoro, anche insignificante, e Alberto non ha trovato di meglio che fargli fare il giardiniere. Curava i prati e i fiori attorno della cittadella che stava nascendo attorno alle cinque famglie italiane. Simon è stato uno dei più fedeli, oltre che al lavoro, anche all?amicizia con Alberto e i suoi. Sarà stato per interesse lavorativo o sarà stato per entusiasmo sincero, chi lo sa. Sta di fatto che non mancava a nessuno degli incontri che gli italiani tenevano in città. E la legge è «da cosa nasce cosa». Il progetto Avsi prevedeva anche l?apertura di un?officina. Simon si è reinventato una specializzazione e ha iniziato a lavorare come operaio in fabbrica. Dopo qualche anno la specializzazione era reale ed è stato promosso a responsabile della produzione. E l?amicizia con Alberto si rafforzava sempre più. Ma allora non era per interesse: la strada di Simon si dipanava, ma non dimenticava le sue radici. A un certo punto il progetto Avsi è finito, l?officina ha chiuso e il ragazzino, che ormai si era fatto uomo, era disoccupato. Ma l?esperienza c?era. E così è nata una piccola impresa, che ora conta quattro dipendenti. Un capannone che lavora a ritmi serrati per rifornire quasi tutte le agenzie meccaniche del Paese. E Simon non ha dimenticato Alberto: ora ha preso il suo posto e dirige alcuni dei nuovi progetti di cooperazione internazionale nel suo Paese.
Da cosa nasce cosa, da miracolo nasce miracolo. O almeno così li chiamano loro, Lucia e Alberto. Sta di fatto che il dramma di Cesbron iniziava e finiva con un?affermazione lapidaria: «È mezzanotte, dottor Schweitzer». E il dottore non aveva parole di fronte al tempo che passava. Invece, per Lucia e Alberto, il tempo, oltre che essere sovrano, è anche amico. Un amico che ti tiene il fiato sul collo, ma che permette di vivere tutto quello che hanno vissuto e che continuano a vivere. Perché in Uganda, nonostante tutto, continuano a starci. ?

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