Devo dire che è abbastanza avvilente, per chi studia e osserva come me l’Economia Sociale e il Terzo Settore, vedere l’irrilevanza di questi temi nelle agende proposte dalle aggregazioni politiche o ancor peggio la strumentalità all’origine dei dibattiti legati al welfare, spesso finalizzati a condurre battaglie ideologiche pensate per imbonire fette di elettorato.
Siamo residuali e la prova della residualità sta nel proporre a scadenze prefissate la nostra lista della spesa ai partiti di turno (agende, linee guida, priorità,…). Sinceramente non credo più a questo metodo di interlocuzione. Non perché sia sbagliato in sé, ma perché i risultati sono sotto gli occhi di tutti, le agende servono più alla Politica che al Sociale.
Occorre discontinuità: quello che manca non sono i contenuti, ma i luoghi e le istituzioni dedicate in cui i contenuti “lievitano” fino a diventare politiche.
Il differenziale fra capacità (potenziale) e capacitazione (tradurre in azioni concrete il potenziale) dell’Economia Sociale risiede solo in parte in una mancata evoluzione normativa e di promozione, perché gran parte del gap sta nella riforma delle istituzioni. Non si può cambiare paradigma con la stessa architettura istituzionale di 50 anni fa: occorre una nuova geografia di soggetti guidati da funzioni-obiettivo diverse per promuovere una reale innovazione.
Occorre riformare le istituzioni per far decollare l’Economia Sociale: diversamente saremo condannati a proporre agende con scadenze regolari per far riaffermare la nostra residualità.
L’Economia Sociale in Italia è una potenza economica: si contano, ad esempio, quasi 81 mila imprese cooperative e 12 mila cooperative sociali. È un bacino di occupazione significativo, stabile e capace di includere categorie vulnerabili in processi produttivi (la sola cooperazione sociale ha fatto registrare un +17,3% di occupati tra il 2007 e il 2011).
Nei settori più sensibili alla qualità della vita (istruzione, minori, cura) le imprese sociali sono protagoniste assolute e garantiscono servizi di qualità. Provate a pensare se per un attimo si fermassero i 2.228.010 lavoratori retribuiti impiegati nell’Economia Sociale: cosa succederebbe in questo Paese?
In Francia, basandosi sulla semplice constatazione che le imprese sociali rappresentano il 10% dell’economia del Paese e permettono alla società di risparmiare miliardi di euro l’anno di soldi pubblici con forme di “welfare alternativo”, si è deciso di istituire un Ministero sull’Economia Sociale. Potrei andare avanti e parlare della Gran Bretagna, della Spagna o dei paesi nord europei (Svezia e Finlandia in particolare): in tutti questi Stati l’istituzionalizzazione del civile non è una concessione “compassionevole”, ma un atto che nasce dall’evidenza della rilevanza di un settore e del suo peso per lo sviluppo. Come è possibile ignorare il 4,3% del PIL?
Alla Nuova Politica va chiesto un luogo su cui incardinare visione, competenze, politiche per l’Economia Sociale: un luogo per lo sviluppo capace di aumentare il suo perimetro e il suo impatto, includendo quell’imprenditorialità capace di garantire dividendi economici e sociali.
Avere un “luogo istituzionale” significherebbe incardinare la cura degli interessi dell’Economia Sociale nel cuore delle istituzioni, smettendo così di delegarla solo a politici sensibili. La cultura e le persone per crescere hanno bisogno di luoghi: rinunciare ad avere luoghi significa rinunciare a crescere.
Insomma, in Italia serve un Ministero dell’Economia Sociale, per smettere di scrivere appunti sulle agende e cominciare a lavorare stabilmente su un nuovo libro.
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